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Uomini, nonostante tutto

Uomini, nonostante tutto

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Ci sono gli eventi storici, ci sono le suggestioni della spy story, c’è il sentimento e c’è l’azione. Ma c’è soprattutto l’Uomo al centro dell’ultimo capolavoro di Steven Spielberg, uscito in Italia in occasione del giorno della Memoria delle vittime del Nazifascismo. Un esercizio collettivo per riflettere su di noi, sul nostro passato, sul nostro presente e sulle risposte che siamo chiamati a dare ogni giorno. Gli avvenimenti del settembre 1972 evocati dal titolo sono stati scelti come punto di partenza per la narrazione della spirale di odio e di violenza che giunge fino a oggi. Ma non è solo la cronaca di questi giorni di elezioni palestinesi a legarci agli scenari del passato. Sono le paure, i dubbi, gli interrogativi dei protagonisti a essere attuali. Perchè la ferita è ancora aperta. E perchè i problemi sono quelli di sempre, di molte epoche e di molti luoghi, e la storia si ripete.

La sfida dei personaggi di Spielberg è quella di riuscire a rimanere, nonostante tutto, uomini. La storia, la politica, verrebbe da dire il fato, dividono i componenti delle due fazioni contrapposte. È una lotta senza quartiere e senza regole per affermare il proprio diritto, ma soprattutto per sopravvivere. Dove la morte dell’altro può significare la vita per sé e per i propri cari. Questa visione delle cose porta a rispondere necessariamente con violenza alla violenza con un meccanismo incrementale, degenerato. Per portare una persona con dei valori, degli affetti, una prospettiva a uccidere un suo simile bisogna portarla a percepire l’altro come immondo, bestiale. Disumanizzarlo. Può essere una reazione automatica, a caldo. Lo testimonia il ragionamento del Primo Ministro Golda Meir, che si interroga di fronte alle immagini del massacro. «Chi lo ha compiuto non può somigliare ad un essere umano, la ferocia è troppa». È la giustificazione dell’Operazione Ira di Dio. Ma può capitare che gli obiettivi da eliminare abbiano a loro volta una famiglia, dei valori, magari condivisi, ti guardino in faccia e ti parlino. Incantevole e centrale è la scena del dialogo tra il protagonista e il capo di una cellula palestinese, ignaro dell’identità del suo interlocutore. Senza il frame dell’odio a incombere ci si confida le più intime aspirazioni: pace, terra, un avvenire per la propria famiglia.

Le critiche incassate da Spielberg riguardano proprio quest’aspetto del film. Gli estremisti palestinesi, i fautori del massacro di Monaco in testa, hanno volti quasi spaventati, hanno dei sogni, delle aspirazioni. Non vengono giustificati ma vengono considerati, anzitutto, come persone, con le loro storie. Può sembrare banale, ma basta questo per cambiare un punto di vista, toccare le coscienze e suscitare accuse.
Il sicario israeliano accetta la sua missione per servire il proprio popolo, ma non nasconde le proprie difficoltà. Prima fra tutte quella di giustificare le proprie azioni con dei riscontri, dei placebo psicologici. Senza riflettere su quanto sta accadendo, sulle motivazioni, senza alimentare la propria sete di risposte, rimane soltanto un killer. Il rischio è quello di perdita di aderenza con la realtà, l’assuefazione alla rappresaglia, la perdita di valore per il senso e l’importanza della vita. Propria e degli altri. Paranoia o pazzia, bestialità. La stessa che viene imputata agli oppositori, stesso disprezzo, stesse modalità. I capi eliminati vengono sostituiti con capi più feroci, ogni strage corrisposta con un’altra più tremenda. Alla spirale non c’è rimedio. La domanda è legittima: è utile tutto questo? A che costo? Con quali limiti?
La risposta è complicata dall’intrigo politico, dalle mezze verità, dalle collusioni. In definitiva così banale e tuttavia difficile da dire.

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