Wish you were here
La dolce illusione di Ang Lee di Raffaele Elia
Il più occidentale dei registi venuti dall’Oriente riprende il tema della diversità sessuale, già trattato esplicitamente ne Il banchetto di nozze (Hsi Yen, 1993) e sotteso lungo la sua intera filmografia, e lo catapulta nel selvaggio west. Ang Lee valica così l’ultima frontiera del “post-western”, idealmente nato con L’uomo che uccise liberty Valance (The man who shot Liberty Valance, John Ford, 1962) e sublimato da Sam Peckinpah & C. Il mito del cowboy macho e sicuro di sé è demolito con delicatezza e profondità in un dramma toccante e originale che innova anche il patchwork di generi mescolando abilmente western, queer*, film drammatico e melodramma.
Stile elegante e ritmo emotivo
La regia essenziale e raffinata, supportata dalla lucente fotografia di Rodrigo Prieto, descrive attraverso campi lunghi, secondo i canoni del western classico, immagini incantate di verdi vallate, fiumi, montagne e greggi dove le pecore al pascolo disegnano estetizzanti figure in movimento. Gli immensi scenari sono l’elegante cornice di una storia intima che solo occasionalmente concede inquadrature ammiccanti al gay-movie come nel nudo con stivaloni di Gyllenhaal vicino al torrente. La bellezza quasi irreale dei paesaggi non raffredda il ritmo emotivo del film, che cresce fino alla totale identificazione con i protagonisti. La dimensione infantile e innocente del gioco diventa, senza passaggi sottolineati, tenero amore e sfrenata passione nella concitata scena di sesso nella tenda, tra le più riuscite, per intensità e verosimiglianza, della storia del cinema.
Magistrale direzione degli attori
Difficilmente una prova attoriale raggiunge una tale credibilità e naturalezza nel trasmettere la sensazione dell’amore e del desiderio. Il suono strozzato degli indoppiabili monosillabi di Ledger e la tenera malinconia carica di passione di Gyllenhaal, ripresi spesso in enormi primissimi piani, sono completati da un cast eccezionale tra cui spiccano Michelle Williams, la moglie umiliata di Ennis e Roberta Maxwell, la madre di Jack, che in pochi istanti e con minime espressioni riesce a trasmettere le sensazioni di una maternità addolorata dalla sofferenza e commossa dai sentimenti del figlio. Trasportato lungo valli ricche di greggi e di emozioni, lo spettatore segue con il massimo coinvolgimento emotivo tutte le fasi di un amore proibito e clandestino, vissuto attraverso rabbia, senso di colpa e paura di “essere (e di essere giudicato) frocio”. Il confronto continuo con (o contro) la “normalità” dissemina di ostacoli la ricerca di sé. Un luogo segreto dell’anima e la reliquia di una camicia sporca di sangue, pegno di un amore tanto reale quanto incompleto, sono i cimeli su pellicola dell’ultima illusione di Ang Lee.
Sometimes a lie it’s the best thing di Gianmarco Zanrè
Esistono opere, nella giovane quanto intensa storia della settima arte, definite, per innovazione e coraggio, come “revisioniste”: il western, in tutte le sue incarnazioni, ne è stato il genere più contaminato quando, a cavallo fra gli anni sessanta e settanta, i maestri Peckinpah e Altman ribaltarono il mito, di cui già William Wellman con Alba fatale (The Ox-Bow incident, 1943) e John Ford con L’uomo che uccise Liberty Valance (The man who shot Liberty Valance, 1962) avevano predetto la fine.
Eppure, lo splendido e intenso Brokeback Mountain non è neppure un western: la montagna che presta il nome al titolo, così come gli spazi incontaminati e la “vita di frontiera” sono solo un pretesto, come i rodeo, o la pesca in altura in compagnia di un amico, per celare una delle meglio narrate storie d’amore della recente cinematografia. Una passione «che inizia e finisce qui», ma che pare mentire quando un giuramento la consegna, sebbene troppo tardi, all’eternità: Ang Lee, asciugando l’enfasi senza dimenticare i sentimenti, dirige la sua opera più matura con una forza che supera le immagini o i condizionamenti legati alla presenza di due protagonisti dello stesso sesso, e regala allo spettatore attimi di grande suggestione, immagini rallentate e inquadrature dalla sintesi quasi perfetta – i fuochi d’artificio nel cielo della festa sopra Ennis Del Mar separato dalla moglie Alma -, trasformando un potenziale smielato blockbuster in una riflessione profonda sulla potenza di amore e amicizia e sulle ferite causate dall’intolleranza.
Da Brokeback a Madison County
Se, dunque, promozioni e trailer farebbero pensare a una prima associazione con il capolavoro di Eastwood Gli spietati (Unforgiven, Usa, 1992), è un’altra l’opera del grande Clint che pare quasi indissolubilmente legata a Brokeback Mountain, quei Ponti di Madison County (The bridges of Madison County, Usa, 1994) paradossalmente sottovalutati dal grande pubblico in un ribaltamento che vide la critica applaudire l’approccio asciutto a un tema ad alto rischio di retorica quale l’amore: l’epoca è pressoché la stessa, così come la casualità che vede la passione travolgere le vite dei due protagonisti. E se il paragone fra una coppia matura ed eterosessuale rispetto a due cowboy padri di famiglia può apparire stonato, il legame motore delle loro storie resta inesorabilmente, indissolubilmente quello di un sentimento che non conosce distinzioni di genere, trattamento, età o condizione sociale. Nasca come sfogo quasi animale – la “prima volta” a Brokeback di Ennis – o straordinaria tensione empatica verso il mondo – il sensibile, apparentemente duro Jack – l’amore che guida i due protagonisti e ispira le ottime interpretazioni degli attori che loro prestano anima e corpo, appare quanto mai come una forza pericolosa e distruttrice – dalla famiglia disgregata al “fallimento” nella vita sociale – eppure indispensabile, e capace di scatenare, in chi ha la fortuna di viverla, le scariche più forti che il nostro muscolo cardiaco sia in grado di sopportare. Presto o tardi, non importa. Per l’amore non esistono confini, come per la natura. Per questo è così importante Brokeback. Per questo tutto «inizia e finisce qui». Per questo, nello stesso armadio, come un tesoro sepolto, Ennis conserva il maglione della figlia fresca sposa e le camicie della prima rissa fra lui e l’amato Jack.
Curiosità
Una catena di cinema dello Utah ha bloccato le proiezioni del film a Salt Lake City, capitale dello stato dei mormoni. Il film è tratto dal racconto di Anne Proulx, Gente del Wyoming, del 1998 e ha ottenuto, tra l’altro, il Leone d’oro all’ultimo Festival di Venezia, quattro Golden Globe, tra cui il miglior film drammatico, e i premi per il miglior film, la miglior regia e la migliore attrice non protagonista ai Critics Choice Awards, assegnati dalla Broadcast Film Critics Association, la principale associazione di critici americani.
* Parola inglese traducibile con eccentrico, assurdo, utilizzata in gergo cinematografico per indicare film a soggetto omosessuale.
A cura di Raffaele Elia
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