La comprensione della vendetta
Vendetta, tremenda vendetta di Gianmarco Zanrè
Parafrasando i titoli di due pellicole del grande Nicholas Ray, torno ad approcciare, con il consueto peso sul cuore, Park Chan-wook e l’ultimo (?) capitolo della sua ormai famigerata trilogia della vendetta: a chiudere uno dei percorsi più complessi e folgoranti che la settima arte abbia conosciuto negli ultimi anni il capitolo più ermetico, crudele e poetico che l’incredibile cineasta coreano potesse concepire. Messa da parte l’istintività della sua controparte maschile, Geum-Ja, la nostra Lady Vendetta, dipinge un affresco dalle componenti quasi divine, tratteggiato dalla purezza cadaverica di un viso tracciato da un ombretto rosso sangue, denso quanto quello delle sue vittime, cadute sotto il peso di insopprimibili volontà e pazienza. La vendetta di Geum-Ja parte da molto lontano, e se, in termini di tempo, la sua attesa e prigionia ricordano quelle vissute da Dae-Su in Oldboy (id., Park Chan Wook, 2003), in Lady Vendetta il tutto si traduce in una precisa scelta stilistica del regista di operare su due fronti, profondamente differenti l’uno dall’altro: la prima parte, dunque, segnata da un montaggio quasi frenetico, ritmata dai flashback e orchestrata attraverso una sintesi anche cromatica che possa tendere alla luce, o al lato più “santo” della nostra protagonista; una seconda, certamente più cupa, sofferta ed estetizzante, dove la vendetta prende il sopravvento e la storia, da dramma personale, evolve inesorabilmente in una crudelissima passione collettiva. Ripensando a un altro illustre nome del panorama cinematografico orientale non posso non pensare che l’associazione che lega questo Lady Vendetta ai precedenti Oldboy e Mr. Vendetta (Boksuneun naui geot, 2002) sia la stessa che passa attraverso Dolls (id, Takeshi Kitano, 2002) e i precedenti Hana Bi (id., Takeshi Kitano, 1997) e Sonatine (id., Takeshi Kitano, 1993): esteticamente perfetti i primi quanto assolutamente incisivi i secondi. Allo spettatore spetta decidere quale strada seguire, consapevole di quella che sarà, inesorabilmente, la conclusione.
La riflessione indotta, dunque, dalla trasformazione della vendetta di Geum-Ja in opera corale ribalta quasi inesorabilmente la posizione che, nei due capitoli precedenti della trilogia, trovava risoluzione in un rapporto di dualismo assoluto fra “protagonista” e “antagonista”: la stessa vendetta, in questo modo, assume i tratti divini della sua ispiratrice, incapace, certo, di portare a compimento in solitudine il suo progetto se non in sogno eppure, proprio per questo, certamente più crudele e terribile di quella voluta o suggerita nei suoi due “predecessori”. Così è per la scelta di puntare questa volta su una violenza “sotterranea” e suggerita, visivamente meno potente ma capace di arrivare all’osso dell’anima dello spettatore, almeno quanto il poliziotto connivente all’esecuzione di Baek, attesa quanto inevitabile, illustri ai partecipanti come impugnare una lama affinché non ferisca l’aggressore e provochi maggiore sofferenza all’aggredito. Proprio allacciandomi a questo riferimento, concentro la mia attenzione sulla sequenza di maggior impatto della pellicola, l’agghiacciante conclusione della “missione” di Geum-Ja, che, radunati i genitori dei bambini uccisi dal crudele Baek, offre agli stessi la possibilità di punire il responsabile della morte dei loro figli: una vera e propria esecuzione, meditata, discussa e freddamente eseguita, che apre un dibattito ben più profondo rispetto alle coscienze occidentali, che pone la partecipazione al dolore di queste famiglie distrutte sulla bilancia con un esecuzione dal sapore, a tutti gli effetti, di pena di morte. Una morte che non ha risparmiato nessuno, dai bambini mai cresciuti agli adulti capaci, conclusa la vendetta, di chiedere la restituzione dei soldi del riscatto dei figli perduti, dalla tranquillità di Baek e della sua filosofia del “nessuno è perfetto” alle dita di Jenny, figlia della nostra Geum-Ja, strette attorno alla madre ritrovata – ma sarà così? E per quanto? – contando il numero dei “mi dispiace” pronunciati dalla protagonista rotta dal pianto.
La risposta, ancora una volta, non viene trovata neppure a vendetta compiuta. Resta il silenzio di uno spazio vuoto, di una ferita che non rimargina, del rapporto con un atto – quello della vendetta – fra i più intimi e privati che un essere umano possa provare. Dalla scelta di non attuarlo all’ordine in cui, soli, si entra nella stanza ove è prigioniero l’assassino del proprio figlio.
La “dea” Geum-Ja, pur chiudendo la trilogia e uccidendo – per esigenze di trama ma certo anche figurative – i suoi due predecessori – Mr. Vendetta nel ruolo dello sgherro ucciso nella splendida sparatoria in carrello laterale, Oldboy in quello del crudele Baek -, non sembra dunque avere piu’ fortuna degli stessi: una risposta, forse, non c’è. Ma ripensando a Jenny, è proprio per questo che scopriamo di amare Geum-Ja. In fondo, nascosti dietro aspirazioni divine, siamo tutti incondizionatamente umani.
Lacrime nere, pelle bianca e sangue rosso di Claudio Garioni
E’ scritta con lacrime nere su pelle bianca la storia di Lady Vendetta. Lo si percepisce fin dai titoli di testa che, infausti, si addentrano tra i sentieri delle pieghe dei polpastrelli e dei segni del viso. Tutto sarà bagnato dal sangue: lo sappiamo prematuramente.
Park Chan-wook chiude, dopo Mr. Vendetta e Oldboy, la sua trilogia intrisa di dolore, narrando la vicenda di Geum-ja, ragazza costretta ad auto-accusarsi del rapimento e dell’omicidio di un bambino. L’angelo vendicatrice, tornato in libertà dopo tredici anni passati in prigione, decide di farsi giustizia.
I flashback ci spiegano l’immagine di santa e strega che Geum-ja si dipinge addosso aiutando le altre carcerate con preghiere, sapone e veleno. Proprio grazie al contributo delle sue ex compagne, Lady Vendetta ritroverà il responsabile degli omicidi di alcuni bambini, tra i quali quello che le è costato la perdita della libertà e di sua figlia, data in affidamento a una coppia di australiani.
Il film è sostanzialmente diviso in due parti: la prima è rapida (fate caso alla brevità delle singole sequenze che ci portano continuamente avanti e indietro nel tempo), esteticamente e visivamente “pulita”, pronta ad accumulare tutte le tensioni che esplodono nel finale. Le tonalità, infatti, virano interamente verso il nero, pronto ad intaccare il rosso e il bianco che colorano l’intera storia. Le immagini si sporcano al pari delle coscienze degli innocenti nella seconda parte. I ritmi rallentano e sottolineano il pathos del dramma che si compie passando attraverso un dilemma etico, che è al tempo stesso individuale e collettivo, sul ricorso alla violenza e alla giustizia privata.
Il cinema di Park Chan-wook riempie il suo splendido stile di regia con metafore e simboli, costruendo un’architettura di richiami e contrapposizioni. Il pianto che porta sfortuna in carcere è invece liberazione ed espiazione nel finale coperto da una neve killbilliana. La mutilazione degli arti si ripete (il dito in puro stile jakuza che si amputa Geum-ja per chiedere perdono, i proiettili sparati nei piedi dell’assassino), così come ricorre il tema del cibo: se in Oldboy Taesu trovava l’amore e l’inizio della sua vendetta autodistruttiva in un ristorante, così Lady Vendetta prima uccide in carcere attraverso le portate avvelenate con la candeggina, dopodiché – liberata – trova lavoro in una pasticceria e cerca una sorta di purificazione attraverso il bianco del tofu. Ma ci sono altri fili rossi tesi al centro di questa trilogia: il rapimento, la protezione dei propri figli e la capacità di rinascere dalla tragedia. Incredibile il processo di espiazione: la via illuminata all’inizio sembra essere quella della preghiera che viene paragonata a uno strumento di pulizia per raschiare via i peccati. Geum-ja, nel finale, dopo aver consumato collettivamente la sanguinolenta vendetta, si strucca: l’ombretto rosso per sembrare più cattiva viene lavato via prima dell’incontro coi fantasmi del passato nell’enigmatica scena in cui – forse – viene celebrata l’impossibilità di un vero e totale perdono. Rispetto allo strepitoso Oldboy, in Lady Vendetta viene ridotta l’esposizione della violenza che finisce con l’essere accennata fuori campo (al di là di qualche scena sempre particolarmente forte) e manca uno sviluppo sorprendente e sconvolgente della trama. Tuttavia il risultato è ancora una volta di alto livello sia nell’estetica che nei contenuti. E ancora una volta alla fine ci lascia una ferita nell’anima agitata.
Curiosità
Park Chan-wook è l’esponente di punta della nouvelle vague che a Saul chiamano “hanryu” o “386 Generation”. A proposito della “trilogia della vendetta”, il regista ha dichiarato: «In realtà non volevo girare una trilogia, ma in ogni intervista continuavano a chiedermi perché facessi solo film sulla vendetta. Così ho rilanciato: una specie di scommessa fra me e i giornalisti».
A cura di Gianmarco Zanrè
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