Lo stile di Grey
Questa settimana vorrei sottoporre alla vostra cortese attenzione Grey’s Anatomy (2005), la nuova fiction del giovedì sera targata Italia 1. Non perché sia un prodotto particolarmente brillante. In realtà potremmo anche definirla mediocre, nel significato che di questo termine fornisce il dizionario: “Di grado, qualità o grandezza media”. Un telefilm senza infamia né lode, che però ci mostra come la televisione possa essere una scienza esatta (o quasi).
Partiamo dai fatti.
Ci troviamo di fronte alla più classica serie ospedaliera, sulla scia di ER tanto per citare il predecessore più illustre. Siamo nel reparto di chirurgia del Seattle Grace Hospital e seguiamo ora dopo ora le avventure di un variopinto gruppo di specializzandi, ragazzi freschi di università con storie diverse alle spalle accomunati dal desiderio di emergere in un campo professionale particolarmente selettivo. Naturalmente gli aspiranti chirurghi, in quanto esseri umani e protagonisti di fiction, amano, soffrono, gioiscono e mettono in mostra i loro sentimenti.
Concedetemi di utilizzare un’espressione logora quanto questa ambientazione: niente di nuovo sotto il sole. Un po’ General Hospital, un po’ Saranno famosi, con una spruzzatina di Dawson’s Creek e vaghe reminiscenze di Melrose Place.
Lo stesso linguaggio filmico non abbonda di sorprese. Ogni puntata è introdotta dalla voce fuori campo della protagonista che presenta il “tema del giorno”, che verrà ripreso in un breve monologo conclusivo (scelta mutuata da Desperate Housewives, dove però c’era il divertente paradosso del narratore morto). Le telecamere si comportano come è giusto fare in un ospedale, con alternanza tra campi, controcampi e camera a mano nei momenti di frenesia. Lo spazio è gestito razionalmente attraverso una serie di topoi: le brande dove si confidano le debolezze, il banco dell’accoglienza dove si litiga, la corsia dove si prendono le decisioni. A scandire il tutto delle didascalie che ci informano sulle ore di permanenza dei nostri eroi sul posto di lavoro, con una drammatizzazione che fa tanto real Tv.
In definitiva, una bella serie di luoghi comuni cuciti tra loro.
Il risultato? La prima serata di programmazione, preceduta da opportuno martellamento pubblicitario, ha realizzato tre milioni e mezzo di spettatori, registrando uno share di assoluto rispetto.
Che sia il segno di indebolimento della coscienza critica del telespettatore?
Tutt’altro: tra quei tre milioni abbondanti di spettatori c’ero anche io, che mi sono goduto in assoluta serenità due ore di puro intrattenimento, ripromettendomi infine di registrare i prossimi episodi.
Perché a Shonda Rhimes, ideatrice della serie, bisogna riconoscere il merito di averci regalato un prodotto piacevole e ben congegnato, che svolge alla perfezione il suo compito di narrarci delle storie e lo fa con una pulizia grammaticale encomiabile.
In fondo, siamo di fronte alla versione televisiva delle proverbiali fiabe russe già studiate da formalisti e semiologi. Dispositivi narrativi che combinano all’infinito gli stessi elementi con minime variazioni sul tema, risultando però sempre avvincenti.[img4]
Non ci appaiono come opere d’arte, ma soddisfano il nostro bisogno di storie. Ci raccontano qualcosa e lo fanno utilizzando strategie comunicative che sappiamo essere efficaci.
Giusto per restare in ambito favolistico, chioserei il tutto con una piccola morale (posso, vero?).
In tempi come questi, in cui la Lecciso si scontra quotidianamente con Staffelli in una gara a chi grida più forte, perfino un telefilm senza grosse pretese come Grey’s Anatomy può trasformarsi nel farmaco miracoloso che solleva lo spirito di chi nella Tv cerca ancora un cantastorie capace di cullare, tranquillizzare e (perché no?) divertire.
A cura di Marco Valsecchi
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