Un biglietto A/R per la fine della galassia
Che il documentario fosse un genere cinematografico duttile e di affascinante polimorfismo è stato ampiamente dimostrato da molti registi che ne hanno segnato la storia, passata e recente; basti ricordare le origini pionieristiche di Robert Flaherty, le utopie visionarie di Godfrey Reggio, il cinismo di Errol Morris, la poesia di Chris Marker, le sinfonie rock di Don Alan Pennebaker fino alle invettive partigiane di Michael Moore. Grazie a una progressiva maturazione del mercato, ma soprattutto dalla pressante richiesta di verità da parte del pubblico in sala, il documentario sembra attraversare un’età dell’oro, non solo per quanto riguarda il botteghino, quanto per l’enorme slancio evolutivo che il linguaggio documentaristico ha subito in tempi recenti. Parafrasando le parole di Brad Dourif, protagonista di The wild blue yonder di Werner Herzog, verrebbe da chiederci «quanto possiamo andare lontano?». Alla luce della 62° edizione della Mostra di Venezia questa domanda può essere letta nella sua ambivalenza semantica (diegetica) all’interno del film-documentario di Herzog sui viaggi nello spazio e sui limiti della conoscenza umana, e (extradiegetica) su quanto si possa spingere lontano il documentario nello spazio infinito della fiction.
Herzog, seguendo infatti una proposta ipotetica, sperimenta una forma di cinema capace di confondere i confini tra reale e finzione in modo nuovo; il regista tedesco aveva già provato a dissipare questa frontiere con lavori come Fata Morgana (id., 1971) e Apocalisse nel deserto (Lektionen in Finsternis, 1992) ma qui osa in modo molto più ardito. Il film si apre su di una spianata erbosa costellata di moderni mulini a vento, elementi altri (alieni) di un paesaggio naturale, quasi fossero i nuovi nemici contro cui si possa confrontare un moderno Don Chisciotte. Il film è narrato in prima persona da Brad Dourif che si presenta come membro di una comunità di alieni giunti sulla terra da un pianeta della stella Andromeda, alla ricerca di uno spazio ospitale. Dourif mostra attraverso immagini di repertorio il suo pianeta, un mondo in cui atmosfera è composta di elio liquido e il cielo è ghiacciato, descrive i tentativi falliti di insediamento di una colonia extra-terrestre sulla Terra e illustra come gli sforzi degli astronauti dello Space Shuttle STS-43 di cercare un altro luogo ospitale nell’universo (la Terra sta sprofondando in una catastrofe ecologica inevitabile) siano destinati a risultare vani in base al viaggio compiuto dai suoi predecessori. Il mondo subacqueo di Dourif, frutto delle fantasie fantascientifiche di Herzog non è che una lunga, splendida, ripresa subacquea del ghiaccio che copre gli oceani polari, in cui l’acqua a temperatura prossima allo zero si sfoglia in sottili e lucenti lame di ghiaccio.
La conquista dello spazio profondo ha sempre avuto un fascino insostenibile per l’essere umano ed è simbolo della ricerca di superamento dei limiti imposti dalle leggi della natura. In questo caso Herzog supera le barriere esistenti tra cinema e documentario giocando a mostrare delle immagini, dichiarando che esse appartengono a un mondo alieno, quando esse sono palesemente terrestri. Il confine tra finzione e realtà che viene che Herzog chiede di varcare è quello all’interno della mente dello spettatore, una sorta di limite auto-imposto che il regista chiede di abbandonare, stimolando a riflettere sulla sua necessità. Il film-documentario è «un oggetto di cinema non identificato», come lo ha definito il critico Fabien Lemercier, uno sguardo verso il selvaggio e lontanissimo blu, o più semplicemente dentro di noi e all’interno di tutto quello che guardiamo e crediamo di vedere. Il risultato è un bricolage ipnotico ed emotivo. Un viaggio post-kubrickiano che supera il 2001, dove la conoscenza non è più rappresentata da una pietra nera, lucida e affilata. L’alieno Brad Dourif mostra la sua cattedrale nel deserto costruita dagli alieni e poi abbandonata. È la periferia americana. Brad è un alieno/americano, figlio di un sogno illuso, perso e svanito. Herzog ci dice che Brad esiste, non come individuo, ma persiste nello sguardo disilluso dell’americano medio che ha perso fiducia nel suo impero; in questo The wild blue yonder è un vero documentario.
A cura di Carlo Prevosti
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