La redenzione della religione attraverso la vera finzione dell’immagine
Cristo è una scoperta visiva: così Ferrara docet. Il corpo scompare, ma la sua visione è sempre viva (si pensi alla sua apparizione fantasmatica pre-resurrezione).
E benedetto sarà soprattutto colui che non viene turbato dalla sua immagine, proprio come Maria Maddalena. E difatti nel film c’è una precisa scena in cui questo nesso religione / visione lampeggia chiaramente: Ted Younger, il personaggio dello squisito Forest Whitaker, entra in chiesa, da peccatore, per parlare dinanzi agli occhi chiusi / aperti del Messia e la sua visione della croce non è immediata, è una carrellata lenta, è la scoperta timorosa di uno sguardo che sa di non poter sfuggire al visibile a cui sta andando incontro.
Mary è, così, essenzialmente uno splendido film meta-cinematografico che, attraverso la religione, ragiona sull’immagine e sulla sua identità. I personaggi sono carne a metà tra il proprio corpo-realtà e il suo farsi show / finzione immaginifica. Marie è un’attrice che non riesce ad uscire dalla maschera religiosa che ha indossato; le vesti di Maria Maddalena le si imprimono addosso come un tatuaggio e la sua vita continua a scorrere come sequel del film girato (sentite come parla, come si muove, come guarda). Si scorge ancor meglio questa ibridazione nella scena dell’esplosione a Gerusalemme: Marie inizia ad essere vista come reale, con l’oggettiva del regista, e poi diventa immagine, soggettiva delle camere dei servizi giornalistici puntati sull’attentato. Tony Childress, il regista del film nel film This is my blood, è anch’egli un essere “finzionale”. La scena finale in cui si barrica nella sala del proiettore, diventando egli stesso parte della proiezione della sua opera, è la dimostrazione assoluta che lui e il suo lavoro sono una cosa sola: quello è realmente il suo sangue. Ormai la sua pelle è diventata celluloide filmica.
Il giornalista Ted Younger è poi, forse, la figura che più di tutte soffre di questo dualismo ontologico: la sua vita è davvero incorniciata dalle inquadrature della regia televisiva del suo programma; è talmente ossessionato dal suo talk show da farne il suo palcoscenico primario per vivere. Ted è immagine tra le immagini (quando è anchor-man), immagine sopra immagini (quando parla a telefono con la moglie e scorrono dietro le immagini della crisi palestinese oppure in macchina, davanti alla città che scivola senza toccarlo tangibilmente).
In questa dimensione astratta vive il suo disagio interiore, la sua negoziazione con la vita e il senso cristiano dell’amore. Eppure tutti e tre trovano nel “rifugio” di quest’altra realtà, dove esistenziale vuol dire mediale, una possibile strada per avvicinarsi alla Verità e, soprattutto, per redimersi.
Difatti l’espiazione è possibile, anche in un mondo che continua a essere malato e a puzzare di cattiveria. Ed è, in tal senso, con quel montaggio perfetto che avvicina la violenza in Israele al pianto isterico e inarrestabile del neonato in pericolo di vita, che Abel Ferrara ci ricorda proprio tutto ciò, questa eternità del dolore e la sua ciclica bestialità.
Ma purtroppo la realtà non è come il set di ogni film: di questa non potremo mai smontarne le attrezzature e i meccanismi generativi per poi ritornare tranquillamente alla vita, come vediamo accadere nella pellicola alla fine delle riprese di This is my blood: la realtà è un film che siamo costretti a recitare. Ferrara, intanto, nello spiegarcelo è stato ancora una volta audace e spietato pittore.
A cura di Giuseppe Carrieri
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