La caduta degli dei
Quadri a olio, più che fotogrammi. Così appaiono le immagini di Sokurov, plasmate in ogni granello di polvere, maestose nel loro incedere lento, quasi immobile (e di conseguenza ogni passo della macchina da presa è ingigantito nel significato). Forse qui risiede la prima unione fra gli opposti sokuroviani: il cinema che si fa pittura (e viceversa) nei filtri applicati alla cinepresa con la stessa cura e maestria del pittore quando stende i colori a olio sulla tela.
Il cinema di Sokurov è riconciliazione degli ossimori, sotto ogni punto di vista. A partire dalla conoscenza dell’opera di questo grande regista, pressoché nulla nonostante il numero delle opere realizzate (oltre quaranta) e il genio che gli è riconosciuto. Per continuare fra le tematiche dei suoi film, così aderenti alla descrizione della Russia (il ciclo delle elegie), ma al contempo capaci di abbracciare la cultura e la storia delle terre più lontane (la storia mondiale, il Giappone), o all’alternanza fra la documentazione diretta del reale e la costruzione della finzione. E ancora, non si può tralasciare la continua sperimentazione tecnica e di linguaggio (Sokurov è uno sperimentatore di tecnologie, come dimostra il piano sequenza di Arca russa – Russian Ark, 2002) a servizio però di un cinema dal sapore antico, erede diretto di Andrej Tarkovskij.
Eppure, ci si stupisce continuamente di quanto sia sublime Sokurov nel raccontare la contraddizione e gli opposti. Il sole, come Moloch (Molokh, 1999), è l’epitaffio di un dio tornato uomo. I segni sono invertiti: l’Hitler di Moloch era un uomo che voleva essere dio, l’imperatore Hirohito è un dio che cerca in tutti i modi di diventare uomo. Sokurov indugia nel ritratto del dio colto nella quotidianità, in balìa di banali tic nervosi, una servitù e un rituale di vita opprimenti, il cibo e il sonno.
Per Sokurov il divino è colui che si fa Verbo, è sempre legato alla parola. In Moloch la vera dea è Eva, colei che dà un nome nuovo (e una vita nuova) all’Adamo / Hitler, ribattezzato Adi. Allo stesso modo Hirohito è legato alla parola, parla più lingue ed è uomo di lettere oltre che di scienza, legato alla poesia. Ma l’immagine di Sokurov ricorda continuamente che Hirohito è un uomo: un primo piano dell’imperatore appoggiato a un fondo dorato disegna un’aureola attorno al suo volto, ma subito dopo il totale rivela quanto quel fondo dorato sia piccolo, quanto quell’aureola destinata a offuscarsi. La corruzione del dio imperatore passa dapprima attraverso i sensi (il cibo, il sigaro fumato in compagnia dell’ufficiale americano), ma si compie definitivamente nell’immagine: la stampa di Dürer fra le mani di Hirohito (come fra le mani dell’Ivan tarkovskijano) è un monito di morte; e per l’imperatore, come per i fotografi che stanno immortalando la sua immagine, è stupefacente scoprire di assomigliare all’uomo Charlie Chaplin.
Il sole ci ricorda che il senso ultimo dell’immagine è indagare l’uomo e le sue contraddizioni. Probabilmente, questo è il senso ultimo del cinema di Sokurov. O più in generale, del cinema tout court.
Curiosità
Il nome di Issey Ogata, lo straordinario attore che interpreta Hirohito, era stato tenuto segreto perché in Giappone chi osa raffigurare il Tenno rischia il ferro dei fanatici.
A cura di Fabia Abati
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