America ieri
Graffi e ferite profonde
Crash – Contatto fisico giunge in un momento molto particolare della storia sociale recente dell’Europa, attraversata dai moti di rivolta Parigini e, una volta ancora, solcata, soprattutto nella vita delle grandi città, da tensioni razziali che spazzano le strade come un vento che prelude alla tempesta. Los Angeles, la città dei sogni per molti di noi al di qua dell’oceano, in realtà, pare avere ben poco da offrire, se non l’inevitabile scontro che, in ogni parte del mondo, è ammesso quando i rapporti umani scompaiono nella brulicante realtà delle metropoli. Se, ormai più di dieci anni fa, Altman disinfestava il formicaio con elicotteri carichi di diserbante, ora tutto pare viaggiare troppo in fretta, dalla moltiplicazione delle realtà al loro sfruttamento, e manca qualcuno – come il suddetto Mr. A, appunto – che abbia la forza, il cinismo, la lucidità di raccontare le cose fino in fondo, senza ritirare la mano dopo aver scagliato la prima (?) pietra.
La pellicola diretta da Haggis è un piccolo meccanismo di ottima fattura, girato molto bene – palesi i riferimenti a 21 grammi (21 Grams, A. Inarritu, Usa, 2003), Boogie Nights (id., P.T. Anderson, Usa, 1997) e Magnolia (id., P.T. Anderson, Usa, 1999) – e altrettanto ben scritto, soprattutto in un ottica prettamente “di raccordo”, che rimanda una volta ancora all’opera di Altman, le cui singole scene appaiono come incatenate da particolari tesi a migliorare i passaggi fra un cut e l’altro, eppure, al contempo, non esente da debolezze strutturali ma, più di ogni altra cosa, di significato: dopo una partenza secca e decisamente atipica per una pellicola di questo genere, deraglia in scene madri ad alto contenuto retorico nella seconda metà, riuscendo solo parzialmente a rimediare con alcune delle chiuse, spesso legate all’ingombrante concetto – almeno per quanto concerne un’opera artistica in genere – del luogo comune o della “top scene” nel più americano dei concepimenti.
Se, dunque, gli Short Cuts di Carver alla base del monumentale affresco di Altman parevano, allora, stilettate al cuore – per quanto quella fosse una Los Angeles ad uso e consumo esclusivo dei bianchi, realtà ormai superata – i primi colpi inferti da Haggis possono promettere ma, per il momento, non mantengono fino in fondo. Nonostante l’esperienza sul ring eastwoodiano, evidentemente, il ragazzo non ha ancora imparato ad essere veramente “spietato”.
Piccole perle e colpi bassi
Analizzata la materia emotiva della pellicola, ad uno sguardo approfondito risulta certo più affascinante l’approccio tecnico dell’esordiente cineasta, che, pur legandosi troppo ai modelli già citati, confeziona un prodotto di buonissima fattura che, soprattutto a livello narrativo, regala passaggi molto raffinati nei momenti paradossalmente meno “d’impatto” della pellicola – su tutti, il confronto silenzioso fra Brendan Fraser e la sua amante/collaboratrice – e, al contempo, colpi bassi che, nella migliore tradizione statunitense, mescolano abilmente dramma e spettacolarizzazione. Una volta ancora, i nostri cugini d’oltreoceano, dovrebbero tentare di abbassare la voce, per scoprire che, forse, quando non gridi i concetti giungono meglio alle orecchie e ai cuori dei tuoi interlocutori. Cast ben assortito, perlomeno quanto basta per garantirsi il pubblico dei Festival indipendenti così come quello delle grandi sale, ma non sempre all’altezza, se si esclude un Matt Dillon come sempre una spanna sopra i colleghi – anche perché non pare impresa proibitiva superare Brendan Fraser o Ryan Philippe -; delusione per Don Cheadle, forse troppo pieno di sé dopo i fasti di Hotel Rwanda (id., Terry George, 2004). Assolutamente scandaloso il doppiaggio italiano, specie nella resa delle inflessioni linguistiche dei “non americani”: pensavo che passato il 1950 non avrei più sentito in una pellicola frasi come “Io sono ameLicano, no oLientale”.
Curiosità
Fra i produttori della pellicola è presente lo stesso Don Cheadle, candidato all’Oscar lo scorso anno per l’interpretazione nel succitato Hotel Rwanda e già protagonista di Boogie Nights. Paul Haggis, qui al suo esordio da regista, sarà di nuovo lo sceneggiatore di Clint Eastwood per l’ultima fatica cinematografica del grande cineasta americano, Flags of our fathers, in uscita il prossimo anno. La pellicola ha trionfato all’ultima edizione del Deauville Film Festival, attestandosi a sorpresa fra i successi di critica e pubblico maggiori degli ultimi mesi negli States.
A cura di Gianmarco Zanrè
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