La vita è una montagna da scalare
Lorenzo (quello talentuoso), Giulia (quella bella), Martina (quella bruttina), Cesare detto Fava (quello burino) e Max (quello spastico) seguono l’entusiasmo di Enrico (quello solitario e saggio). La splendida cornice delle Dolomiti sarà il palcoscenico di un’indimenticabile esperienza. Un rito di iniziazione che proietta violentemente i ragazzi nel tempo delle loro scelte. I sentieri si dividono. La montagna è vita. La strada, in salita e poi in discesa, assume banalmente simbologie escatologiche.
Il regista Giacomo Campiotti torna a lavorare per il cinema dopo Il tempo dell’amore (1999 – attualmente lavora a uno sceneggiato televisivo), e lo fa confezionando un film che vuole parlare dei giovani e di (troppe) cose. Individua una precisa collocazione temporale nella vita dei sei amici, l’estate dopo la maturità, per farli crescere tutti insieme in un solo momento.
Schiocca le dita, basta un attimo, e tutto cambia.
Aprono una porta e di colpo si trovano nell’età adulta. Ma è troppo ingenuo ridurre le scelte e la crescita a un solo evento scatenante. Un approccio così esplicitamente semplicistico / giovanilistico è del tutto innocuo. il film si rifugia in luoghi comuni e pesante qualunquismo. Proprio perché i suoi personaggi esprimono verità inconfutabili, sembrano fragili e privi di una struttura credibile. E’ un gioco che può divertire, ma che progressivamente stanca.
Infatti il ritmo frenetico delle sequenze iniziali, che introducono con sapiente curiosità all’universo giovanile, sembra essere di buon auspicio. Ma il film ben presto cambia registro e intenzioni, forse involontariamente, trasformandosi in un elenco fiacco di buoni propositi e fragili promesse. Giunti sulle Dolomiti (la montagna come metafora della vita; simboli scarni come le continue salite, l’aiuto verso il prossimo, la bellezza della natura) i protagonisti si accorgono di non avere molto da spartire, ma anzi l’incontro si trasforma sempre in scontro.
La montagna conserva sorprese visive straordinarie e non è mai banale; i contorni delle montagne non sono semplici sagome da riprendere di notte: sono mondi nascosti. Non basta che le riprese in alta quota siano audaci e se qualche momento si mostra ricco di tensione: chi guarda sa già dove si arriverà. Colpa di una sceneggiatura ovvia, inconsistente, e incoerente.
Campiotti vuole bene ai suoi personaggi ma non permette allo spettatore di affezionarsi. Li tiene costretti nelle maschere che lui stesso ha costruito. Li fa soffocare in inutili slogan e annegare in un costante atteggiamento predicatorio. Chi guarda non scopre nulla di nuovo.
L’ingenuità di fondo, quindi, non aiuta il film. E’ vero che il regista Campiotti non gioca sporco, ma nemmeno l’evidente ed estrema sincerità è sufficiente. Anche il finale è vittima di tale atteggiamento: positiva qualche buona trovata e qualche buona intenzione, ma tutto resta estremamente disordinato e prevedibile. Ognuno percorre la sua strada. L’impressione è quella di stare a guardare un film che vuole dire più di quanto mostra.
A cura di Matteo Mazza
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