Intervista a Radu Mihaileanu
Da Train de vie a Vai e vivrai la strada è breve: abbiamo incontrato Radu Mihaileanu, regista romeno premiato quest’anno a Berlino.
Il film racconta una storia vera, quella degli ebrei etiopi, ma quella di Schlomo, il piccolo protagonista come è nato o come ne è venuto a conoscenza?
E’ nato tutto da un fortunato e fortunoso incontro. Nel 1999 ero al festival del cinema di Los Angeles per presentare Train de vie e lì ho avuto la fortuna di incontrare un ebreo etiope durante una cena. Abbiamo parlato insieme tantissimo, mi ha raccontato la sua storia, praticamente abbiamo passato insieme tutta la notte fino a prendere insieme un caffè la mattina. Non sono mai stato sconvolto nel sentire una storia come quella volta, il ricordo è ancora vivo. Quest’uomo ogni due frasi, quasi per scusarsi di aver vissuto vicende così terribile faceva delle battute per stemperare con l’umorismo l’atmosfera. Effettivamente quest’uomo era un orfano, diversamente rispetto alla storia del film lui era ebreo. Il nostro incontro avvenne così. In seguito sono tornato a Parigi e ho cominciato a documentarmi su quegli avvenimenti, sull’operazione Mosè. Ho iniziato questa ricerca come essere umano, per capire, non era mia intenzione quella di trasformarlo prima in un libro e poi in un film, volevo capire. Più leggevo e più mi documentavo, più mi appassionavo al problema geopolitico dell’identità. Più diventavo nervoso, furibondo e arrabbiato, per me è così diventato un dovere quello di trasmettere e diffondere questa storia, perché non passasse ancora inosservata. A mio parere si tratta di una delle più grandi avventure del ventesimo secolo, un po’ come se Mosè uscisse di nuovo dalla schiavitù con il proprio popolo, ma nessuno racconta le storie se i protagonisti sono dei poveri. È come se essendo poveri non si avesse il diritto di avere spazio nei mezzi di comunicazione per raccontare la propria storia. Ho voluto dare una voce a questa gente. Così con il mio co-sceneggiatore (Alain-Michel Blanc) mi sono recato in Israele e abbiamo cercato di parlare con tutte le persone che hanno vissuto questa vicenda, orfani che hanno perso i genitori e genitori senza più i propri figli. Abbiamo anche parlato con le persone che si sono occupati dei falasha (gli ebrei etiopi) i servizi sociali, i medici senza frontiere, i volontari. La fase di documentazione è durata cinque anni, fino a che siamo arrivati all’idea del film. C’è stata un’esitazione durante questo iter, perché sapevamo che questo tema era molto sensibile. Un po’ perché si trattava di Israele, un po’ perché l’argomento non era facile da trattare, ma ora sono orgoglioso delle scelte che abbiamo fatto. Volevo dare un’immagine di Israele che non fosse quella monolitica dei telegiornali. Gli israeliani non hanno tutti un carro armato parcheggiato sotto casa e sono pronti a fare la guerra.
Il film è stato visto in Israele? Quali sono state le reazioni?
Per quanto riguarda la diaspora, ovvero tutti gli ebrei che vivono al di fuori di Israele, hanno accolto il film molto caldamente. È stato un gran successo per esempio in Francia, quasi un miracolo. Non potevamo certo immaginare che la storia di un piccolo bambino nero, cristiano che si fa passare per ebreo, potesse suscitare tanto interesse. Il film è stato proiettato addirittura ad un festival in Giappone, davanti ad un pubblico di oltre mille e trecento persone che hanno molto apprezzato il film. Tanto che a giugno il film uscira nelle sale giapponesi. In Israele il film è uscito da pochissimo, il 21 di ottobre, e già possiamo dire che si tratta di un successo.
Dopo gli ebrei di Train de vie che si fingono nazisti, perché raccontare la storia di un bambino cristiano che si finge ebreo per sopravvivere?
All’inizio volevo raccontare la storia di un bambino ebreo. Man mano che mi inoltravo nella storia, mentre parlavo con il Mossad e altre persone che hanno vissuto i campi sudanesi mi è stato detto più volte che lì non c’erano ebrei, perché quella era la versione ufficiale. La stessa versione si trova nei libri, ovvero nei campi del Sudan non c’erano ebrei. Non potevo crederci, perché un segreto non può essere conservato da oltre dieci o dodicimila persone e sapevo anche che gli ebrei etiopi erano molto religiosi, osservanti e che non potevano impedirsi di rispettare le tradizioni ebraiche come lo shabbat o di cucinare durante la festività del sabato. Un giorno ho incontrato il numero due del Mossad che allora era il responsabile di questa operazione, gli ho spiegato i miei dubbi e lui ha riconosciuto che era stata organizzata una sorta di polizia che doveva difendere questa popolazione. C’era una sorta di ricatto di minaccia sugli ebrei da parte delle etnie cristiane e islamiche. Così ho immaginato una madre cristiana che non poteva salvare il proprio bambino, e anche se io sono ebreo ho capito che il mio punto di vista non poteva limitarsi a quello ebraico, dovevo andare oltre. Durante la guerra mondiale ci sono state famiglie cristiane che hanno salvato bambini ebrei. Il punto di vista allora doveva essere quello della vittima, quello di chi viene deportato. Io, proprio perché ebreo, non potevo non avere quest’altra visione, quella della madre che non può salvare il proprio figlio. Questo è infatti un film che racconta la storia di quattro madri. Non è assolutamente importante che siano cristiane o ebree, bianche o nere. È la storia di madri che vogliono salvare il proprio figlio. Volevo che fosse una storia universale, non mi interessa un film fatto da un ebreo per gli ebrei, da essere visto in Israele. Tutto ciò mi ha aperto altri punti di vista, anche più drammatici, come la figura dello straniero. Che cosa è uno straniero e che cosa è uno straniero che deve entrare in una comunità. Credo che tutta la nostra vita possa essere tradotto attraverso questi punti di vista, quello interno e quello esterno, viviamo questa dualità sempre ed è ancor più vera per un immigrato. Questi discorsi sull’identità sono pericolosi però, perché ricordano chi ricercava un’identità di un popolo e un sangue puro. Oggi abbiamo la fortuna grazie ai libri, ai viaggi, ad internet di arricchirci della cultura anche degli altri.
Secondo lei, come mai oggi le religioni sembra che dividano anziché unire i popoli?
È vero questo discorso, salvo che oggi credo che si viva un fraintendimento delle parole. Non è la religione a dividere ma sono i fanatismi. Io non sono religioso ma amo la religione come dottrina filosofica. Tutte le religioni. Quando la religione diventa filosofia, gira intorno ad un interrogativo, allora io amo la religione. Quando la religione si trasforma in politica, diventa uno strumento di potere, diventa un’affermazione, allora io odio la religione. Credo che questa “affermazione” sia una prigione. Questo in generale, non solo la religione. Nella cultura ebraica si dice che migliore risposta è sempre una domanda. Perché la domanda ci lascia liberi mentre la risposta ci imprigiona. Il film ci mostra l’integralismo, da una parte, che rifiuta l’identità altrui e che si trovano nella rigidità della risposta e poi ci sono i religiosi aperti, come il rabbino personale del bambino che non si chiude quando Schlomo dichiara che Gesù è il fondatore della loro religione. Lì si vede la loro apertura. La religione è un po’ come la vita, si campisce subito che tipo di religioso uno è semplicemente guardandolo attraverso il suo senso dell’umorismo, se ce l’ha o se è una persona completamente rigida.
Questo film analogamente a Train de vie narra di un viaggio, una fuga da una tragedia verso la salvezza ma viene raccontato con un tono molto drammatico, molto diverso dallo humor del film precedente. Cosa la ha convinta a cambiare registro così drasticamente?
In molti avrebbero voluto un Train de vie 2 ma come regista mi sento al servizio della storia che voglio raccontare. Questo tema non poteva essere trattato come una commedia o come un cartone di Tex Avery. Si tratta di un dramma molto più caldo e contemporaneo, io dovevo rendere conto agli ebrei etiopi, quelli di oggi. Poi l’argomento riguarda Israele e mi piacerebbe sopravvivere dopo questo film per fare altri film. Però non ho potuto impedirmi di aggiungere qua e là alcune battute, alcuni elementi divertenti che chiamo “respiri”. Ogni tanto sentivo il bisogno di respirare, credo che anche il pubblico possa provare lo stesso bisogno.
Il suo è un cinema di fuga? L’uomo è costretto a fuggire?
Anche sulla base della mia storia personale, io preferisco le situazioni estreme. Storie umane estreme. Credo che il volto di un essere umano si riveli per il suo lato migliore in situazioni estreme. Credo che tutti siamo in una sorta di esilio, di fuga, che è la nostra vita, sempre troppo corta. Non mi piace la parola patria, preferisco dire che ci troviamo su di un territorio ignoto e dobbiamo sopravvivere. Tutto il mio film è come se mostrasse una formica che si da da fare per sopravvivere in mezzo ad essere più grandi che la guardano dall’alto verso il basso. Nella mia vita ho vissuto molti traumi e fughe. Il mondo si muove sempre più rapidamente e anche le persone cambiano più rapidamente. Come se ci fosse sempre presente la paura della morte, una continua incomprensione da cui scappare. Usiamo solo una piccola parte del nostro cervello e il nostro cervello continua a chiedersi cosa succederà di male o di bene. Amo l’incontro/scontro tra vite e culture diverse, mi piace quando si incontrano punti di vista diversi, quando ci si può arricchire del punto di vista altrui ma mi sembra che ultimamente l’umanità stia scivolando verso qualcosa di restrittivo o restringente. Credo che bisognerà lottare contro questo per ritrovare la molteplicità delle ricchezze e il rispetto gli uni verso gli altri.
Nonostante i mezzi di comunicazione sempre più forti noi, oggi, non sappiamo nulla di quello che succede in molte parti del mondo.
L’informazione esiste è quella che viene data dalla CNN e poi viene ritrasmessa da tutti gli altri media. La tragedia di questo mondo è che abbiamo tutti i mezzi di cui potremmo aver bisogno ma abbiamo un unico punto di vista. La soluzione a mio parere sta nella scuola, nell’insegnare a non credere che solo quello che passa nella piccola scatola della televisione sia la verità. La vita non è solo il piccolo schermo ma si svolge a trecentosessanta gradi, forse bisognerebbe anche dire a chi fa televisione che l’audience si troverebbe migliorata se avesse una visione più ampia, non solo su di un evento ma su tutte le cose che accadono quotidianamente nel mondo. La tecnologia per comunicare non è sempre un bene. Mi trovavo in una metropolitana giapponese e vedevo tutte le persone intente a parlare attraverso il loro telefono cellulare. Non uno all’altro. La migliore forma di comunicazione è la parola, faccia a faccia, parlarsi direttamente. Questa è comunicazione.
Come lavora con gli attori? Che rapporto ha con loro?
Li odio! Io ho iniziato la mia carriera come attore. Ero un pessimo attore. Ho però imparato quello che un attore si aspetta da un regista. Intanto che sia innamorato di lui. Un po’ come capita nella vita di coppia. Bisogna dare all’altra persona. Il mio ruolo è quello di aiutare l’attore a trovare il suo sé per sublimarsi e per dare al pubblico tutto quello che ha dentro. Qualche volta è vero che la strada è un po’ difficile, perché bisogna destabilizzare quegli attori che seguono binari un po’ troppo prestabiliti. Quando scrivo un copione non mi aspetto che di riprodurlo alla lettera mentre lo sto girando. La mia idea è quella di fare un percorso con gli attori in una sorta di terra di nessuno, per andare avanti insieme, [img4]per imparare quanto più possibile. Mi piace avere una base tecnica solida per poi procedere in questo percorso tutti insieme in una foresta ignota.
Quale personaggio avrebbe voluto interpretare nel suo film?
Tutti. Se non volessi interpretare uno dei personaggi non avrei potuto fare questo film. Il mio ruolo è quello di capirli tutti, anche se alcuni di questi personaggi io non li capisco, non condivido le loro scelte, come per esempio il padre di Sara che non accetta Schlomo, però il mio ruolo è di capirli altrimenti rischierei di cadere nello stereotipo.
A cura di Carlo Prevosti
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