Sotto un sole cocente quanto è duro camminare nella neve
Non è né una città né una periferia. Texas è un’antifrasi, un’idea geografica di vita (im)possibile, o meglio che la moderna incapacità dei personaggi del film non può raggiungere – ma è soprattutto l’incoscienza dell’esperienza di diventare grandi.
Il film punta l’obiettivo sulle vite di coloro che si ritengono essere i figli di Beppe Fenoglio e Cesare Pavese e allo stesso tempo fratelli di Edward Norton e Kurt Cobain: dal belloccio e inutile a Davide, la cui sfortuna è solo un prolungamento della sua inerzia, da Enrico che deve partire ma non partirà, che deve parlare ma che non parlerà, a Cinzia, sempre ai margini, stretta in vestiti da bambini per la sua incapacità di entrarci da donna, dall’insegnante Maria amante inaridita e incapace di essere maestra di se stessa al marito Alessandro, ferito e tradito, condannato all’inazione e passivo nell’esecuzione, senza dimenticare tutta la comitiva di amici (i provinciali che credono di essere messicani) che si riunisce quotidianamente in una villa borghese per bere e demolirsi.
Fausto Paravidino cura bene la profondità vuota dei loro sguardi per sottolineare l’aurea di nichilismo che li avvolge, ma non per questo è un demiurgo dalla visione cupa e critica, cercando anzi in loro una sorta di baldanzosa mitologia inversa. Come dice Paravidino: «Quello che vorremmo fare è un intervento simile a quello che fa Hopper con la pittura, fare diventare una pompa di benzina o un bar notturno un grande monumento per il semplice fatto di aver scelto di mettervi una cornice intorno».
In un western asciugato del suo epos, Texas è la ricerca di una leggendarietà nell’ironico, è la moderna consapevolezza che il Bildungsroman è morto, e che il vero romanzo di formazione oggi è fatto di rutti e bottiglie di birra rotte in testa, di amori impossibili e incapacità di eseguire il proprio destino, di diventare grandi senza accorgersene o di credersi grandi ancora bambini (si pensi al piccolo Albertino, a sette anni già comunista e difensore del proletariato, nonché alcolizzato).
La scena finale in cui i due anti-eroi Davide ed Enrico camminano nei profondi vigneti innevati, inciampano e si rialzano per inciampare di nuovo è il perfetto sintagma visivo di quanto ancora sia lunga per loro la strada verso la Verità del loro essere, di quanto, sebbene si illudano di avere sopra di loro il sole del caldo Texas, la terra (quindi la realtà) in cui affondano i loro incerti piedi è fatta di neve come sabbie mobili.
E se il film convince per questo preciso sapore di modernità, Paravidino abilmente ne accresce anche la qualità stilistica con delle trovate visive che ben si sintonizzano con la materia trattata.
I personaggi non sono mai al centro del quadro, ma spezzati nei loro volti e gli allucinati, nonché isterici movimenti della macchina da presa ben si sincronizzano con il disagio vitale di questi ragazzi. Il quadro è oscillante come un pendolo e spesso si fatica a trovare dove il regista voglia dirigere il suo sguardo: si ha l’idea che tutto debba essere tenuto sott’occhio per entrare davvero nell’anti-epica di questa storia o che, ancor meglio, lo stesso demiurgo sia condannato all’errore come i personaggi che canta.
In questa lanterna magica della contemporaneità in cui le immagini si moltiplicano drogate (si badi agli split screen) o si deformano come bolle di sapone, in cui i primissimi piani sono depauperati di ricerca emotiva, ancora si guarda l’uomo solo in mezzo alla gente nelle sue continue ricerche, nel suo continuo interrogarsi sul dove andare, sia che si trovi in provincia o che si trovi in una metropoli. D’altronde per questo la geografia di Paravidino è inutile e il suo Texas diventa, necessariamente, un po’ tutti noi.
A cura di Giuseppe Carrieri
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