Cinema inanimato
La fine del monopolio Disney nel mondo dell’animazione ricorda per certi aspetti il crollo dell’Unione Sovietica: da un unico paradigma a tanti modelli di cinema d’animazione. In realtà, più che di pluralità di tipi si dovrebbe forse parlare di differenziazione dei target: Shrek (id., Andrew Adamson e Vicky Jenson, 2000) aveva illuminato le platee mondiali sulla possibilità del cinema d’animazione di rivolgersi agli adulti e da allora si continua a esplorare questa nuova (?) fascia di pubblico. Ennesima conferma, in realtà, del pregiudizio che non cessa di circolare sull’animazione: cinema (o anche letteratura) per l’infanzia non significa infantile, e la complessità dell’universo Disney ne è una prova.
Gaya sembra il risultato di un’addizione aritmetica: morale + citazioni cinematografiche = film per bambini che piacerà anche ai genitori e ai nonni accompagnatori dei pargoli. La formula si sta però usurando a ogni nuovo utilizzo, soprattutto se non è sorretta da una sceneggiatura solida, come dimostra anche il recente Madagascar (id., Eric Darnell e Tom McGrath, 2005).
Iniziamo dal secondo addendo. Alcuni riferimenti cinematografici tentano di costruire un orizzonte di senso; altri non sono ugualmente significativi; altri ancora non giovano all’economia del racconto, rivelandosi solamente una furba strizzata d’occhio al buon genitore. Si va così dall’appropriato The Truman Show (id., Peter Weir, 1998) alla meno profonda Compagnia della Dalamite, per poi concludere con un inutile e gratuito Matrix (The Matrix, Andy e Larry Wachowski, 1999) – Shrek. Non ci si spiega perché dopo la principessa Fiona una pulzella animata in odore di emancipazione debba ribadire la propria indipendenza lottando sospesa a mezz’aria come Trinity, quando il carattere del personaggio è già ben riassunto nelle sue movenze (qui gli animatori hanno avuto un’ottima intuizione) e nella disobbedienza alla volontà paterna, come la Ariel disneiana.
Anche la morale è ben riassunta con una definizione da vocabolario, e altrettanto ben enfatizzata dalla musica, così il genitore non corre il rischio di perderla. Una morale importante, impegnativa, oserei dire adulta: il libero arbitrio. Il film se ne ricorda arrivato a circa due terzi della sua durata, dopo aver incollato varie fughe e inseguimenti che non sembrano avere altra funzione se non coprire circa un’ora di film. La vicenda si innesca sulla perdita della Dalamite, dell’oggetto magico, e per tutta la prima parte i personaggi sono agiti dagli eventi; quindi personaggi e sceneggiatori si imbattono nella spiegazione di ciò che è il libero arbitrio, e da lì il film cambia totalmente direzione. Gaya impartisce un insegnamento scritto, trattando il pubblico come degli alunni, senza pensare che per un bambino potrebbe essere più affascinante ed educativa l’immedesimazione in un personaggio. Forse questo film piacerà proprio ai genitori e ai nonni accompagnatori, che si sentiranno appagati di aver trasmesso un messaggio difficile e perfino originale ai propri pargoli. Una nuova fascia di pubblico?
A cura di Fabia Abati
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