Un sogno spezzato
Arriva dopo molte pagine quella frase che si aspetta con ansia, due, tre parole che diventano sacre di per sé, uniche e isolate da tutte le altre, quelle parole dove si sente la voce di chi scrive, voce che si alza sopra le altre per un piccolo momento: «Mai sottovalutare il potere dei libri».
L’ispirazione di questo scrittore non cessa mai di combattere: sbircia tra due fuochi di devastazione per vedere la speranza. I personaggi che si incontrano e casualmente si scontrano sono tutti, già all’inizio, uomini finiti che aspettano di morire, che hanno abbandonato la speranza e si gettano dalle finestre rotte della loro vita ormai in cenere. Ma lentamente inizia a snodarsi la storia che, da sola, è in grado di farli resuscitare: con le parole, con il potere dei libri, le persone possono rinascere, possono tornare a raccontarsi e a raccontare la loro vita. Il protagonista Nathan Glass narra gli intrecci e le vicende di tutti gli amici e i parenti che incontra, e con le parole può creare la vita, per se stesso e per gli altri.
Ancora, come sempre, Auster riesce a narrare libri nei libri, racconti di racconti, e i mondi, in un solo romanzo, si moltiplicano: c’è la storia della cameriera e la storia di Harry l’omosessuale, la storia della Bellissima e Perfetta Madre, le fantasie sull’Hotel Esistenza, gli aneddoti del Libro della follia umana, e c’è il ritorno all’amore, alla pacificazione di un piccolo e stravagante nucleo familiare. Un mondo in provetta, quello della famiglia allargata di Nathan Glass, che non vuole raccontare di quella croce scalfita alle nove e quarantacinque minuti dell’11 settembre 2001. Rimane un nucleo di pace, lasciando che sia il mondo intero a raccontare la follia umana dopo quella data.
Un libro così dolce, dopo l’asprezza dei due precedenti, da dare l’impressione di una grande nostalgia per un periodo in cui gli uomini, seppur straziati dalla vita, avevano la possibilità di risollevarsi. Nostalgia di un intellettuale americano, fortemente antirepubblicano, che ama immensamente New York, e che forse ha amato molto anche il Sogno che la sua terra prometteva a chiunque. Emerge forte tra le righe il bisogno di un ritorno, la necessità del ricordo e della ricerca di radici più solide, o meglio, di fondamenta salde. Manca la terra sotto i piedi, e lo scrittore sceglie di ondeggiare su un filo sottile, ad occhi chiusi sopra un baratro troppo inquietante per essere visto, accettato, e dunque raccontato.
Paul Auster decide di farsi spazio tra i due pilastri di morte, scrivendo di quando era possibile ricostruire e ricominciare. L’impossibilità di narrare ciò che accadde dopo pesa come un’oscura premonizione: forse nemmeno il potere dei libri sarà in grado di rifondare ciò che, da quel giorno, continua incessantemente a crollare.
A cura di Francesca Bertazzoni
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