Un film parlato
«Fra noi non c’è intimità»
Presentando la propria esistenza come un quadretto nel quale ogni cosa è quasi al suo posto, Jean lo incornicia con queste parole, mentre cammina nella folla; il quadretto è quasi perfetto all’orecchio di chi ascolta, ma già si intuisce qualche dissonanza.
Occorrono una manciata di minuti per descrivere deliziosamente e teatralmente l’ambiente (il regista Chéreau proviene dal teatro e adatta il film da un breve racconto di Conrad del 1897 dal titolo Il ritorno): uno dei soliti ricevimenti del giovedì sera ricchi di ospiti, tante parole con le quali giocare, tanta raffinatezza salottiera, tanto acume intellettuale e prontezza di spirito nella padrona di casa Gabrielle. In poche scene arriva lo squarcio, a rompere una routine convenzionale, fatta di apparenza.
Gabrielle è un film-fiume di parole: dette, ascoltate e curiosamente scritte, anche a caratteri cubitali, che compaiono nei momenti più estremi, difficili, disperati, a sostituire le grida di Jean; a lui spetta infatti la parte del protagonista che vomita a dismisura una quantità esagerata di parole, quasi a voler rassicurare se stesso. A Gabrielle (una superba e raffinata Isabelle Huppert, negli infiniti gesti e sguardi silenziosi) invece, non resta che usare le parole in modo molto parco, ma tagliente e straziante: parole dette anche con l’aiuto di Yvonne, la domestica, per cercare contemporaneamente di chiedersi e di spiegarsi il perché di alcune situazioni. E’ magnifico il breve racconto sul Tempo che si svolge nella sala da bagno con Yvonne, nel quale si schiude il senso della difficoltà dell’ Andare (quindi di scegliere) e della facilità del Tornare dell’Essere umano.
Attraverso la parola Chéreau viviseziona questa coppia dei primi del Novecento, dando al racconto una vita fredda, distaccata, a tratti gelida: non ci si emoziona vedendo Gabrielle, perché si è invitati tutto il tempo a capire, ad andare in profondità, ad ascoltare con la testa. Lontananza dello spettatore come nella coppia. Ma vicinanza intima dello sguardo della macchina da presa, soprattutto su Gabrielle, che a tratti sembra guardar-ci per parlar-ci (quando è sdraiata sul letto verso la fine del film), con la totalità del suo viso che dice tutto anche senza parole. Forse questa freddezza percepita, diretta conseguenza di quella rappresentata, è il vero pregio del film.
Un film parlato, ma che non trascura gli altri mezzi espressivi cinematografici. La colonna sonora, musica prevalentemente da camera (dominata dagli archi), aderisce molto bene al racconto-pièce teatrale che è il film; nel finale una specie di fanfara funebre prepara adeguatamente ciò che accadrà di lì a breve. Che dire, infine, del preziosismo cromatico del film? Colore e bianco/nero si alternano curiosamente esattamente come i pochi ralenti posti in alcune scene cruciali a testimoniare una raffinatezza di stile pregevole.
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