Reality Show
The chef must go on
Nell’ultimo decennio, complici l’avvento di internet come organo di stampa globale e non ufficiale e l’inesorabile ascesa dei reality show, la comunicazione e i media si sono trovati di fronte a inevitabili cambiamenti che sempre più spesso paiono calcare le orme del Grande Fratello di orwelliana memoria: gli artisti di ogni campo, spesso e volentieri, si sono battuti a spada tratta contro questi nuovi e potenzialmente pericolosi linguaggi, armati di invettive al vetriolo e sfoghi quasi rabbiosi, tanto da far sorgere il sospetto nei sostenitori degli stessi media di una sorta di inespressa invidia da parte dei detrattori. Pochi, al contrario, sono stati i registi (nel caso del cinema) a dedicarsi a temi socialmente e politicamente così importanti con ironia e sarcasmo, ultimo in ordine di tempo il George A. Romero di La terra dei morti viventi (Land of the dead, 2005): Johnny To, prolifico autore di action movies, è il più recente acquisto di questa purtroppo sempre esigua categoria. Nel suo ultimo lavoro la costruzione di una storia tutt’altro che originale e stimolante pare cedere il passo a una più interessante critica verso la spettacolarizzazione degli eventi di cronaca, polso vibrante di una metropoli come Hong Kong: il Tenente Rebecca, che ordina al suo staff di montare le immagini registrate dalle microcamere in modo che i feriti e le azioni più efferate dei criminali assediati non compaiano nei video forniti alla stampa, dice tutto e molto di più a proposito di situazioni analoghe che abbiamo potuto riscontrare, per esempio, nei riguardi dell’amministrazione Bush e di alcune azioni avvenute in Iraq e nell’ormai tristemente noto carcere di Guantanamo.
Da sottolineare inoltre l’efficace battaglia “culinaria” fra i criminali, che cucinano per gli ostaggi, e Rebecca, che ordina il pranzo per stampa, agenti e curiosi radunati nella zona del palazzo assediato: splendido anche il passaggio che vede il padre dei due bambini rapiti, a tavola con i suoi sequestratori, ordinare al figlio di brindare “allo zio ladro e allo zio assassino”.
Certo, in alcuni tratti, e soprattutto nel finale, To appare confuso sull’indirizzo definitivo da assegnare alla sua pellicola, eppure il piatto risulta succulento e, se non si appartiene alla cerchia dei “vincitori” – e come spesso capita nei lavori del cineasta di Hong Kong, le sue simpatie non sono chiaramente per i tutori dell’ordine – non si presenta alcun rischio d’indigestione. Al contrario, la voglia di un’altra portata cresce.
Snake eyes
La citazione del pur non riuscito Omicidio in diretta (Snake eyes, Brian De Palma, 1998) diviene quasi d’obbligo pensando allo sfoggio di tecnica mostrato da To in questa sua ultima fatica: nonostante permanga, infatti, il dubbio che ogni passaggio virtuoso non sia altro che un mero sfogo atto a stupire il pubblico – e, soprattutto, le giurie dei festival – non si può che rimanere ammirati dall’uso incredibile di controcampi, split-screen e giochi di montaggio legati a doppio filo alla sceneggiatura, che cancellano anche grossolane disattenzioni (si veda a tal proposito l’orologio del computer alle spalle del capo di Rebecca durante il briefing della missione) e permettono, almeno al sottoscritto, di passare sopra all’autocompiacimento per tale abilità.
A ciò si aggiunga lo strepitoso piano-sequenza d’apertura, dove la macchina da presa quasi danza partendo dai grattacieli fino alle case basse e sporche della via ove si consuma la fuga della banda di rapinatori. Un alternarsi di movimenti lenti e sinuosi che passano dalle vetture dei poliziotti in attesa all’appartamento dei criminali braccati, fino a vertiginosi trecentosessanta gradi a sparatoria iniziata che forniscono panoramiche ad alta tensione sulla scena.
Da sottolineare anche la bellissima inquadratura del vano dell’ascensore nel corso dell’ultima fuga dei banditi, una piccola perla di staticità all’interno di una pellicola che fa del dinamismo il suo punto di forza, almeno per quanto riguarda l’apporto tecnico al risultato.
Di contro tengo comunque a segnalare una colonna sonora non brillantissima, un doppiaggio – come spesso accade per le pellicole orientali – inadeguato e, questa certo una sorpresa, considerando l’ottima prova, ad esempio, fornita in The mission (Cheong feng, Johnny To, 1999), sparatorie e scene d’azione non sempre all’altezza delle ambizioni.
Ottimo per gli appassionati, perfetto per gli apprendisti registi, certo non per il grande pubblico, troppo abituato agli standard dettati dagli action-movies di stampo hollywoodiano.
Curiosità
La locandina del film utilizzata per il lancio in Italia cita “Selezione ufficiale del Festival di Cannes”: curioso il fatto che Breaking news fosse presente al Festival 2004 come fuori concorso, mentre il più recente Election (Hak seh wui, 2005), già uscito nelle sale in quasi tutto il mondo, fosse effettivamente parte della selezione dell’edizione appena trascorsa della kermesse francese. Bizzarrie della nostrana distribuzione.
A cura di Gianmarco Zanrè
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