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Buone azioni e senso di colpa

Buone azioni e senso di colpa

La morale non abita più qui di Antiniska Pozzi ********

La trama del film è nota, e in ogni caso ha meno rilevanza di quella che gli è stata attribuita da molti critici, i quali hanno anche individuato nella prostituzione adolescenziale, nella pedofilia e nel senso di colpa i temi portanti del film. Ma la vicenda narrata non è che un pretesto: tre quadri, esemplari per linearità e pulizia di stile, che si offrono allo spettatore come puro sguardo sul mondo contemporaneo. Non c’è alcuna intenzione di morale, chi guarda non è guidato, non è condotto ad alcuna tesi; è lasciato libero, piuttosto, di pensare (o di non farlo). La telecamera “fa vedere”, abolendo ogni giudizio: non giudicano i protagonisti dell’azione filmica, e non dovrebbe giudicare lo spettatore.

C’è una ragazzina che si prostituisce, c’è un padre incapace di parlare con lei, e intorno a loro uomini, gli uomini che popolano il mondo. Ma soprattutto, intorno a loro ci sono i fantasmi, di quelli che sono morti, di quelli che moriranno, i fantasmi della famiglia e i fantasmi della morale. I protagonisti si muovono in un mondo terreno che sfugge alle definizioni, in cui i sentimenti non sono colore netto ma sfumatura, in cui i legami di sangue non garantiscono risposte e mostrano tutta la loro inadeguatezza. Il regista non pontifica, non predica, non giudica; ci presta il suo sguardo, e lo fa con immagini simboliche (e quindi innanzitutto realistiche) di estrema efficacia. Due fanciulle fanno capolino dietro una coppia di statue (uomo/donna), attraversano un giardino e vanno a (ri)posarsi accanto a una schiera di corpi e volti scolpiti nella pietra dei quali condividono il destino. Una delle due fanciulle muore, e l’altra ne prende l’amara consegna, corpo vestito sotto il getto della doccia. Il padre (bravissimo Eol Lee) la vede con un cliente: arriverà ad uccidere, ma continuerà a raccontarle aneddoti dell’agiografia cristiana e a svegliarla al mattino con le gymnopédies di Erik Satie.

Il lutto è impossibile, stavolta, da elaborare: non ci sono motivazioni, e comunque non vengono indagate dal regista. Non interessa, in fondo, sapere perchè Yeo-jin si prostituisca o perchè suo padre finga con lei di non aver visto nulla. Non si cerca una ragione perchè non è piu’ possibile, non è piu’ lecito cercarla. Si puo’ guardare; guardate tramite me e guardate con me, sembra dire Kim Ki-duk. E dopo aver guardato si puo’ considerare o ignorare, sentire o non sentire, si puo’ avere paura. Oppure no. Non c’è nulla nel film che indichi una direzione, e questa a mio parere è la bellezza del finale. Il padre prova a condurre la figlia su una via, iniziarle un viaggio, segnarle una strada materiale (che meraviglia quei sassi dipinti di giallo!) e spirituale, ma poi va via, scompare, la abbandona. Ognuno resta solo con se stesso, privo di guide, umane o no che siano; padri e madri sono morti, se mai ci sono stati.

Le favole hanno un solo eroe e una sola principessa? di Alberto Soragni ********

Sarò breve. Io spesso non credo a registi sopravvalutati o sottovalutati. Ma credo che un certo tipo di cinema, come quello coreano, abbia una dimensione visiva talmente opposta alla nostra da risultare, per originalità, attraente. Annoiato e abituato da una piattezza occidentale, il pubblico europeo si compiace nell’osservare e studiare la simbologia (cristiana, buddista, pagana) di film come quelli di Kim Ki-Duk, o come quelli dell’osannato Kiarostami (?).
I film del regista coreano confondono, mescolano e rimescolano, danno fastidio. La loro necessità è estraniarti, infastidirti della totale illogicità di azioni compiute (o immaginate) dei personaggi, per poi accompagnarti per mano verso la porta (senza buco della serratura) della purificazione.
Perché di purificazione si tratta.

Sembra di essere dentro un libro di Propp, in una favola che rimedia il sonno di noi bambini. Per questo motivo le funzioni della storia (come del resto le prime favole raccontate) “costruiscono” la fiaba di Kim Ki-Duk: il divieto (la prostituzione), l’infrazione (il primo arresto) e l’allontanamento (la morte di Vasumitra: è come la morte prematura di Cunegonda per il Candido di Voltaire, lo stesso annichilimento) rappresentano la prima parte; la mediazione (la scelta di Yeo-Jin), il consenso dell’eroe (la prostituzione mitotica), il trasferimento dell’eroe (Yeo-Jin) rappresentano la seconda; l’incontro con il saggio (il vecchio della baita), la rimozione della sciagura (la catarsi con il pianto, la tomba della madre), le pretese del falso eroe (il sogno dell’assassino), lo smascheramento (l’arresto), l’eroe che si salva (chi è l’eroe ora?) rappresentano la terza.

Chi è l’eroe? È difficile ipotizzarlo in questo film senza confini, contemplativo perché non accetta il silenzio, perché non accetta la sconfitta del non detto.
Non c’è soluzione, non c’è vero legame tra i tre eroi (quattro con Sonata, la macchina), non ci sono significati. La ricerca del regista è una metodologia di esecuzione, come Yeo-Jin e il suo strano modo di guidare la macchina, di “condurla”. La macchina è funzione di un’incognita x, è il mezzo che semplifica l’accesso a qualche simbolica teoria della vita difficilmente interpretabile. Se significato vuol dire trovare la chiave di accesso: Jabberwocky direbbe Lewis Carroll.

Buone azioni e senso di colpa di Carlo Prevosti *****

Kim Ki-duk è un regista molto prolifico e di sicuro interesse, anche per la riscoperta delle cinematografie dell’estremo oriente. Critici e festival internazionali lo amano molto. A testimoniare ciò sono le continue presenze, a cui fanno seguito immancabili premi, dalla Croisette fino al Lido, passando dall’Orso d’argento per la regia vinto con La samaritana a Berlino. Con questo film, girato nel 2004 prima di Ferro 3 (Bin-jip, 2004), aprirà certamente un dibattito profondo tra coloro che credono che Kim Ki-duk sia un genio e chi lo considera un regista sopravvalutato.

Il film è composto da tre quadri che, sebbene siano cronologicamente sequenziali e quindi profondamente legati, raccontano tre storie indipendenti. Vasumitra (il nome di una donna Indiana di un racconto buddista) è il nome d’arte che la giovane Jae-young si sceglie per prostituirsi. I soldi ricavati serviranno a lei e all’amica Yeo-jin, con cui condivide un rapporto ai limiti del saffico, per realizzare il sogno di un viaggio in Europa. Yeo-jin, più timida e inesperta con gli uomini, si occupa di prendere gli appuntamenti e di incassare il denaro. Jae-young, scoperta da un blitz della polizia, sceglie di buttarsi da una finestra finendo tragicamente la sua storia. Samaria (la samaritana) sarà il ruolo che si attribuisce Yeo-jin che, spinta da un profondo senso di colpa, decide di sostituirsi alla sua amica per restituire i soldi ai clienti di Jae-young, ma suo padre (poliziotto di professione) la scoprirà e si vendicherà dei clienti che abusano di lei. Sonata (dal nome di un auto) è il viaggio che Jae-young compie con il padre che sceglie di avviarla alla vita indipendente prima di abbandonarla per consegnarsi alla giustizia.

La samaritana appare diverso dagli ultimi film di Kim Ki-duk, per lo meno dopo L’isola (Seom, 2000): è molto parlato e il silenzio non assume un valore comunicativo come accadeva nei film precedenti, risultando assai meno contemplativo. Inoltre la filosofia Zen (che tornerà anche nel successivo The bowHwal, 2005 -, presentato quest’anno a Cannes) viene sostituita da un cattolicesimo ai limiti del ortodossia (come spesso accade in estremo oriente) che però sottolinea in modo analogo ai precedenti il profondo senso di colpa che governa le azioni umane. Così Yeo-jin decide di prostituirsi per alleviare il suo senso di colpa e allo stesso modo suo padre di sente di non essere stato un buon genitore ed espia le sue colpe vendicandosi sui clienti.
Il risultato è un film denso di significati, metaforici e letterari, caratteristica che non sempre deve essere considerata un pregio, sopratutto quando si scade nella retorica e nel moralismo. Il confine è labile e le opinioni si sprecheranno a proposito, ma la sensazione è che parlare di Kim Ki-duk, nel bene o nel male, sia necessario per comprendere la cinematografia coreana, fra le più attive e interessanti del panorama mondiale.

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