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cultura dell'immagine e della parola

Amatemi

Voglio essere amata tutte le volte che amo. Mi basta questo. Mi basta sapere che in quel momento, quando io amavo lui, lui amava me. È una corrispondenza marziana, è il galeone del Luna Park che va avanti e indietro, avanti e indietro in un equilibrio sicuro.
Voglio essere amata. Me ne frego di tutto il resto, del figlio di lui con un’altra. Me ne frego del mio orgoglio, preferisco addobbare di nastrini i miei ricordi.
Nina, Isabella Ferrari, stravolge il suo modo di confrontarsi con l’amore, e inconsciamente fissa la telecamera del marito Renato De Maria (“Amatemi”, uscito nelle sale oggi, è il 18 giugno 2005: riferimento temporale). Una stretta analisi è il mondo di De Maria, bloccato dal silenzio di risposte che vorrebbe sentire, di una donna che è voce in un supermercato (“si chiude signore, si chiude”: mai pensato chi si cela dietro quelle frasi automatiche?).
Il matrimonio contemporaneo è non confrontarsi.

«Come va il mondo?
Bene.
Come va il mondo?
Male
».
Jovanotti (Tanto)³

Come Holly Golightly (“Colazione da Tiffany”) che si sistema il trucco per leggere una lettera d’amore. Non sminuire che ti ama.
Anche Nina si sistema il trucco prima di parlare, prima di dire “si chiude signore, si chiude”: è un circolo vizioso il confronto. È il circolo di chi ti dice “ama te stesso e curati, gli altri ti ameranno”. Amare. Incominci a prenotare la pulizia del viso, a ricoprirti il corpo di latte dopo bagno, a essere l’energica che non sarai.
Amati solo se sai che tutte le volte sarai amata. Confrontarsi vuol dire non sapere da dove partire. È così che ci si sente degli ignoranti analisti da quattro soldi con soluzioni in mano. Perché analizzarsi vuol dire confrontarsi con qualcos’altro.
Penso che saremo tutti schizofrenici un giorno.
12 giugno 2005: “Millimetri: sensazioni di cose minime” di Sergio Antonino alla Biennale di Venezia. Danza contemporanea ballata in un letto di uova sode, ballerini che cercano di non schiacciarle e lasciano imprimere la pelle dalla luce di un palcoscenico bagnato (la Biennale nella sua spettrale individualità di città molto amata: saremo tutti ricambiati dai suoi palazzi?), con la paura di sbagliare a coordinarsi, di cadere nel fondo putrido della laguna.
Loro ballavano e, dopo avere invidiato i loro muscoli elastici, guardando e ridendo se un uovo era più o meno stato falciato, capivo di non essere uno di loro. Non eravamo come loro che prendevano respiro per seguire un ritmo. No.
Noi siamo le uova.

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