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cultura dell'immagine e della parola

Mi benedica, Padre, perché ho Peccato…

Mi benedica, Padre, perché ho Peccato…

Per me si va nella città dolente
Una stanza sudicia di una zona sudicia di una sudicia città. Pare un monito di rovente memoria l’incipit del primo capitolo di quella che sarà una delle parentesi autoriali del fumetto americano più osannata degli ultimi quindici anni. Marv, che di questa storia è protagonista, riassume tutte le caratteristiche peculiari di quello che è il supercriminale: la ricetta di Miller è un’abile miscela del Comico di Alan Moore e del Punitore targato Marvel. Questa volta, però, alle spalle del charachter non ci sono i viaggi del mago di Northampton, o il mondo dorato di una major, ma soltanto il bianco e nero tagliato e aggressivo di una città che più sordida non potrebbe essere, e che, da buona figlia della sua epoca, pare aver filtrato attraverso le note di Nirvana e Smashing Pumpkins, l’Inferno di Dante, passato, a sua volta, attraverso i fasti dei Devil e Batman che tanto bene fecero allo stesso Miller nel corso degli anni 80, e la sensibilità aggressiva di un Abel Ferrara delle nuvole parlanti.

In the cut
Frank è un tipo originale, di quelli che i fan più accaniti sognano di incontrare alle convention per poi non rivolgergli neppure la parola, indicandolo con timore reverenziale agli amici, da lontano. Ma non sono le stravaganze a rendere speciale il vecchio Frank, bensì ogni sua rasoiata agli occhi del lettore: le spericolate inquadrature, spesso distorte, così perpendicolari all’azione da ricordare lo splendido “Elektra assassin”, e la grande regia della tavola. Il dinamismo espresso da figure apparentemente statiche come lo stesso Marv sono qui reinterpretate secondo un bianco e nero che è quanto di più secco e tagliente si sia mai tentato per un fumetto che puntava anche a un possibile successo “al botteghino”. Ogni pagina, soprattutto per quanto riguarda le scene d’azione, o quelle mute, pare quasi essere stata incisa, più che illustrata, e il pennello di Miller appare come un coltello, un proiettile, quasi a voler richiamare quella Gladys tanto amata dal suo ottimo primo attore Marv.

Sindrome di Stoccolma
Analizzare un opera strabordante come questa in uno spazio così ridotto sarebbe impresa impossibile per lo stesso Marv, che dalle prime pagine subito conquista il lettore ribaltando il punto di vista tradizionale per cui tutto, specie in un albo a fumetti, debba essere bianco o nero: è possibile che non sia solo un caso stilistico il fatto che Miller abbia deciso di utilizzare soltanto questi due colori per illustrare il suo lavoro, dimenticandosi dell’esistenza dei grigi. Un’opera giocata tutta sugli opposti in grado di guidare il lettore attraverso un mondo di contrasti, dove, anche quando non si vede, è sempre il grigio a farla da padrone, che sia nelle bugie d’amore (per se stessa o per Marv?) di Goldie o nascosta sotto la tonaca del cardinale “San” Patrick Roark, dal cognome di curiosa assonanza al sempre mooriano Rohrshack. Sarà un caso che l’ispirazione per questo straordinario personaggio viene dai famosi test psicologici, sempre e rigorosamente in bianco e nero?
A prescindere da quello che la ragione può supporre, si presenta ai nostri occhi un puzzle forse contestabile, eppure perfetto nella sua crudele linearità, dal quale sentirsi rapiti e, come il famoso caso di sequestro da cui ho attinto per il titolo di questo paragrafo, di cui innamorarsi perdutamente. O ancora meglio, concedergli una notte di sesso sfrenato.
In fondo, siamo nella città del peccato.

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