Giudizio finale
Per il mondo latino l’exemplum era una forma di narrazione “esemplare” ovvero una sorta di modello da seguire. La banda della Magliana, secondo Daniele Costantini, è un exemplum negativo, ovvero un modello da non seguire. Il fascino che scaturisce dai cattivi è più magnetico di quello degli eroi positivi, questo ce lo aveva già insegnato Disney, quando eravamo piccoli. Costantini vuole dimostrare come le vite dei malviventi siano vissute con bruciante intensità, a loro modo sono uomini fuori dal comune, eccezionali.
L’impianto narrativo è incentrato su un set di impostazione teatrale. Davanti ad un giudice immaginario i membri della banda, quelli ancora vivi come quelli già morti, rendono atto delle loro imprese. Lo sguardo in macchina si rivolge al pubblico che viene identificato come una sorta di giudice (impersonato nel finale da un mefistofelico Leo Gullotta). Teatrale è anche l’impostazione della recitazione, sempre sopra le righe, degli attori romaneschi. Le vicende passate sono sempre raccontate dalle voci dei membri della banda, solo alcuni episodi vengono messi in scena e girati con linguaggio filmico. Non a caso il soggetto del film è tratto dall’omonimo spettacolo teatrale dello stesso Constantini del quale è stato scelto di non snaturarne l’impianto narrativo.
Il film è stato girato con un budget molto ridotto, utilizzando telecamere HD (Alta Definizione) nei momenti in cui la banda si confessa al pubblico/giudice e in Dv, di qualità più bassa come per gli home video d’epoca, quando vengono riportati alla memoria i fatti del lontano passato. Il set scelto è stato ricostruito all’interno del carcere di Rebibbia, dove la troupe ha girato per tre settimane. Alcuni delle comparse e dei personaggi secondari sono stati infatti interpretati da detenuti del carcere romano, ovvero alcuni fra i membri delle vere bande che imperversavano nei quartieri di Roma all’epoca dei fatti narrati.
Un prodotto che in definitiva sarebbe piaciuto a Peter Brook di Marat/Sade (id., 1967), ma che mette impietosamente in luce come esista una incompatibilità evidente fra testi teatrali e cinema senza un’adeguata variazione dei registri linguistici.
A cura di Carlo Prevosti
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