Intervista a Gabriele Salvatores
Abbiamo incontrato il premio Oscar Gabriele Salvatore a Milano per la presentazione del suo ultimo film Quo vadis, baby?
Che lavoro c’è stato per il passaggio dal romanzo al film?
L’esperienza di Quo vadis, baby? è stata molto diversa rispetto a quella di Io non ho paura. Quel film era stato tratto da un romanzo di Niccolò Ammaniti che già nasceva da un soggetto cinematografico, evidentemente pensato per immagini. Il romanzo omonimo di Grazia Verasani è invece scritto con la tecnica del flusso di coscienza e gli episodi narrativi sono legati in modo apparentemente disordinato, come lo sono i pensieri umani. Il passaggio alla sceneggiatura è stato quindi molto complesso, abbiamo riscritto tutta la storia modificandone il finale. Spero di aver rispettato l’anima del romanzo, ma soprattutto del personaggio protagonista e della detective story. Anche se in realtà, per quest’ultima, ho preferito costruire un puzzle che solo il pubblico, alla fine del film, avrà modo di vedere nella sua interezza. Gli ho lasciato collocare l’ultimo tassello per completarlo.
Come si è trovato a girare in HD?
Sebbene trovo che la ripresa in digitale abbia ancora delle limitazioni rispetto alla pellicola, credo che da qui a sei, sette anni la maggior parte del cinema sarà girato in HD. Il digitale è una fantastica forma di democratizzazione del mezzo, chiunque abbia un’idea in cui crede può pensare di realizzarla. Il passaggio credo che possa essere analogo a quello che c’è stato con l’uso dei personal computer per chi si occupa di musica.
Bologna notturna e insolita, perché?
Grazia Verasani è una scrittrice bolognese molto legata alla sua città e l’ambientazione del romanzo è proprio nella città emiliana. Sebbene la vicenda si collochi in una situazione atemporale e aspaziale, cioè potrebbe essere ambientata in una qualsiasi città, sono rimasto affascinato dall’idea di descrivere questi luoghi esterni ma chiusi che sono i portici del centro di Bologna. A Bologna infatti ti può capitare di perderti per quei labirinti, ripetitivi e uguali, e di camminare per decine di minuti senza mai avere il cielo sulla testa. In realtà ho cercato di calcare la mano sull’astrazione del luogo, tanto che non c’è mai nessuno in giro, a parte i protagonisti della vicenda.
Dopo tanti generi alleggeriti da un tono di commedia, perché ha scelto il noir puro?
Mi piace confrontarmi con le regole dei generi, ma forse il mio essere napoletano mi ha dato un modo di vedere la vita molto vicino alla comicità. Non riuscirei a vivere senza trovare il lato comico delle cose. Inoltre il noir e la fantascienza sono generi spesso considerati di serie B, ma sono forme utili per raccontare il presente. Permettono di presentare una realtà deformata, perché il cinema non deve essere solo uno specchio in cui guardarsi, deve essere come al luna park un po’ deformato per interessare e intrattenere. Il noir è un modo di esaltare il lato buio delle cose.
C’è una netta contrapposizione tra una Bologna notturna e bagnata dalla pioggia e una Roma mattiniera e soleggiata…
Roma e Bologna rappresentano le anime delle due sorelle, una solitaria, cupa ed enigmatica come Bologna, l’altra solare e aperta al mondo del cinema con grandi speranze come una mattina di Roma. Roma è un punto di arrivo anche se si rivela falso, è una speranza.
Il film è pieno di citazioni musicali e cinematografiche, è una scelta precisa?
Amo molto contestualizzare i periodi storici con rimandi culturali, la musica è forse uno degli elementi più forti per compiere questo lavoro. Impressioni di Settembre della PFM apre e chiude il film, ma in due versioni differenti, quasi a sottolineare lo scarto temporale avvenuto, i Talking Heads e gli Ultravox sono parte dell’immaginario degli anni ottanta in cui le due sorelle ancora erano unite e così via. Non serve dare date quando si può riconoscere un periodo da una canzone. I manifesti cinematografici sono qualcosa in più di un omaggio, il cinema è un elemento importante del film. La sorella di Giorgia va a Roma per fare cinema, il professore insegna cinema e la stessa Giorgia che non ama i film trova le sue risposte in due film diversi. Siamo partiti dal cinema e abbiamo cercato di mettere riferimenti al cinema che ci piace, ma anche per sottolineare la difficoltà di fare cinema e la passione necessaria. Sono manifesti di “cinema politico” e per noi sono forse come dei santi protettori.
Quale è stato il motivo che ha spinto a realizzare questo film?
Soprattutto il personaggio di Giorgia, un personaggio atipico per il cinema italiano. Una donna matura, disillusa, un po’ persa, senza figli e affetti sicuri. Anche un po’ politicamente scorretta. In effetti mi affascinava anche il fatto che il romanzo, [img4]per come è stato scritto, non narra una storia cronologicamente omogenea. Il Determinismo sostiene che se vuoi raccontare una storia non puoi farlo a parole perché già scegliendole la stai modificando. Devi perciò farla scoprire al pubblico, farlo diventare un ruolo attivo.
Il messaggio finale del film sembra essere di avere più attenzione verso i nostri bambini…
La citazione alla scena finale di M, il mostro di Dusseldorf (M, Fritz Lang, 1931) lo dimostra evidentemente. Bisogna vigilare meglio sui nostri bambini, essere padre comporta grandi responsabilità.
A cura di Carlo Prevosti
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