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Soli in un deserto di rumori

Soli in un deserto di rumori

L’anima, la maternità, la debolezza umana: il film esprime tutto questo, e fa passare i messaggi attraverso il corpo e la voce di Emily (Maggie Cheung), protagonista – oltreché moglie cinese del regista francese Olivier Assayas – di una storia in cui mostra se stessa.
Dall’inizio alla fine il film è un inno alla fragilità e alla complessità, mai sciolta, della vita.
E poi, amore in grande quantità: per la storia, per la madre, per l’arte, per ogni cosa capace di aggiungere significato alle azioni e ai pensieri. Ma l’amore si ferma alle soglie del racconto. Infatti, ai personaggi l’amore sembra un lusso, a partire dalla protagonista, con la sua relazione conflittuale, destinata a finire, stroncata dalla morte del partner. Grandi tensioni si respirano nell’aria, innanzitutto con gli amici, dai quali è accusata di essere responsabile della morte del compagno, un cantante di talento ucciso dalla droga, e poi con i parenti, stanchi del suo carattere.
Tra le accuse, la comprensione del suocero, interpretato mirabilmente da Nick Nolte. Ma il loro rapporto passa attraverso un bambino (rispettivamente figlio e nipote), il giovane Jay, tanto critico nei confronti della madre. Molto difficile capire l’opinione del suocero sulla donna. Ingenua l’idea di un’assoluzione, poiché in ogni discorso l’uomo mostra preoccupazione per le sorti del bambino: infatti, che ne sarà di lui dopo la morte dei nonni?
Il bambino non può soffrire la madre, perché la considera responsabile della morte del padre. La realtà dei fatti è diversa, come al solito più complessa. E non a caso l’opinione del bambino esprime l’opinione della nonna, da cui è stato allevato.

Accuse gravi scagliate come lance, giudizi affrettati, discorsi cattivi circa una donna considerata il “male”. Non si può dire certo che gli uomini aspirino a capirsi, presi come sono ad odiare, a usare come pretesto buoni sentimenti passati, utilizzati come mazze. Non a tutti piace confrontarsi con la realtà, in cui si vuole cogliere il bene e il male senza fatica, col risultato di rendere gli altri piatti e convenzionali. Una tendenza fondamentale degli umani, perché non si accetta l’idea di una realtà più complessa del previsto, ma difficile da capire se questo significa odio e scontro.
In questo senso la storia racconta la solitudine.
Ombra dell’uomo, sua natura, oggetto di riflessione filosofica da millenni, oggi scoperta anche dal grande cinema, limite e delizia dello spirito, motivo di orgoglio, lodata e maledetta. Questa è la solitudine. Emerge soprattutto durante i discorsi della protagonista: gli interlocutori sono distanti, e mostrano cosa significa essere personaggi secondari; non così il suocero / Nolte, armato di talento, che cerca comunque il dialogo, il confronto, e rassicurazioni per il nipote. E non poteva essere altrimenti: come ogni personaggio, il suocero rappresenta un aspetto (bello) dello spirito umano; il regista si spinge oltre, considerando ciascun personaggio emanazione di un tratto del carattere della protagonista.

Quale che sia la verità, Nolte rappresenta il sentimento materno: infatti, esso può prendere varie forme, anche le più lontane dalle aspettative normali. Dopotutto il film è nemico giurato della normalità. La normalità non esiste. C’è da crederci, in quanto mancano le condizioni necessarie, poiché non si può pretendere dalla realtà di garantirne l’esistenza insieme con la solitudine: l’una, insomma, esclude l’altra – se ci si pensa bene -, a causa dell’incapacità della solitudine di andare d’accordo con l’aggettivo “normale”.
A questo proposito, e a conferma di quanto sostenuto, la coprotagonista della storia è la voce di Emily: metafora del suo spirito, come nota il regista, compare soprattutto alla fine, e rappresenta una meta ideale verso cui la donna è in inevitabile, solitario cammino.

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