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Intervista a Daniele Vicari

Reduce dalla Semaine de la Critique a Cannes 2005, Daniele Vicari, regista di L’orizzonte degli eventi (a Milano per presentare il suo film che sarà nelle sale da Venerdì 20 Maggio) ci ha raccontato come è nata l’idea del suo nuovo film e di come ha portato a termine un progetto complesso e difficile.

Da cosa è nata l’idea di L’orizzonte degli eventi?

Con la realizzazione del documentario Uomini e Lupi sono venuto a conoscenza di una realtà che probabilmente è sconosciuta in tutta Italia al di fuori dell’Abruzzo. A metà degli anni Novanta i pastori che portavano le greggi di pecore ai pascoli erano prevalentemente di origine Albanese, o meglio ancora Macedone. Arrivati in Italia con mezzi di fortuna si trovavano a dover fare i conti con un’organizzazione di albanesi che chiedeva un grosso riscatto in cambio dei documenti necessari per proseguire il viaggio fino in Germania. Il pastore è un mestiere che non fa parte del passato di queste persone, alcuni dei quali erano studenti, ma è un modo per guadagnare qualcosa senza dare nell’occhio. Non sono dei criminali, sono solo dei disperati.

Come li ha contattati?

Non è stato facile perché non si fidavano molto, soprattutto a causa delle telecamere. Credevano fossi un giornalista e che portassi solo sventura. Giravamo accompagnati da un mediatore culturale che doveva fare da contatto e da interprete, in realtà come ho scoperto solo dopo, era anche a causa sua che i pastori diffidavano di me, visto che lui stesso gestiva un traffico di clandestini. Tanto che l’unico giorno in cui abbiamo girato senza accompagnamento siamo riusciti a cogliere il lato più umano di quei ragazzi persi sulle montagne e della loro solitudine.

Perché ha scelto di creare uno stacco così netto tra la prima parte del film e la seconda?

L’idea iniziale era quella di montare il film alternando i due momenti. L’omogeneità dei due luoghi, il laboratorio e i pascoli, invece era così forte da richiedere una separazione netta di luogo e di azione. Altrimenti sarebbe diventato un film “a tesi” e non avrei voluto che il mio film potesse dar adito ad una lettura del genere. Ho scelto di lasciare un prologo, che solo alla fine del film viene spiegato allo spettatore in modo da avvertire che, prima o poi, si parlerà di altro che di fisica e neutrini.

Come hai lavorato per caratterizzare i luoghi?

La prima parte è caratterizzata da ambienti chiusi, da inquadrature rigorose e c’è una forte continuità narrativa e psicologica. Il mondo di Max è una sorta di rifugio emozionale, dove i movimenti di macchina sono freddi e “matematici”, come il carrello. Il percorso di conoscenza di Max è infatti freddo e distaccato. Nella seconda parte, il personaggio è spiazzato, non ha più pareti in cui nascondersi, è allo “scoperto”. La macchina diventa mobile, appoggiata ma non fissa, così come instabile è il mondo dei pastori macedoni.

Cosa è falsificare i dati per Max?

Max non falsifica dei dati, li virtualizza. Conosce l’esperimento meglio di chiunque altro e sa che in alcuni mesi avrebbe ottenuto gli stessi risultati ottenuti dal generatore di eventi. La falsificazione secondo l’epistemologia di Popper è una messa in crisi dei dati oggettivi. Max crea dati virtuali, in anticipo ma non falsi. Il cinema, come la fisica, è legato alle esigenze del mercato, con una forte limitazione della cultura. I governi “liberisti” per esempio considerano evitabile la ricerca scientifica, perché credono che i risultati possano essere “acquistati” da altri paesi. Gli scienziati, ma anche gli artisit, desiderano accorciare i tempi e saltare la fase della ricerca pura, vorrebbero solo i risultati. Durante la presentazione a Cannes alcune persone hanno sottolineato che era molto tempo che era da molto tempo che un film non metteva in crisi la figura la figura dell’intellettuale. Soprattutto dello scienziato. Tutti viviamo in simbiosi con la tecnologia, ma non ci poniamo mai alcun problema a proposito di essa. Io, come regista, devo pormi in una posizione critica nei confronti del cinema e quindi del mio lavoro.

Credi che il finale sia consolatorio?

Il finale non è consolatorio, ma porta ad una consapevolezza il personaggio di Mastrandrea. L’iter di un personaggio così complesso lo porta a chiedere per la prima volta aiuto. Il contatto con il pastore lo pone di fronte ai veri problemi della vita, non solo a quelli di laboratorio. Non basta essere coscienti di quello che avviene intorno a noi. Bisogna anche assumersi delle responsabilità riguardo a ciò che accade e di ciò che comportano le nostre azioni. Max prende coscienza di ciò che ha fatto e il ritorno da Anais lo dimostra, ma non si è assunto la responsabilità dell’accaduto. Il prezzo di questo fatto è la morte del giovane macedone.

Perché hai scelto che il personaggio di Anais fosse francese?

La scelta è stata fatta per sottolineare che i concetti di libertà, fraternità e uguaglianza, insiti nella coscienza di ogni francese, sono necessari ad ogni cittadino. Per cittadinanza però intendo il concetto francese, nato con la rivoluzione, cosa che dovrebbe essere un punto cardine dell’unità europea, mentre nell’Italia cattolica non succede. In Francia infatti il senso di responsabilità è più importante rispetto a quello di colpa.

La solitudine sembra essere un tema ricorrente nei tuoi lavori…

La solitudine è un grosso problema della società moderna. Era infatti anche il tema del mio primo film, Velocità massima. La nostra è una solitudine “politica”. L’espressionismo diceva che nella nostra società si vive una solitudine pubblica di fronte alla società di massa. C’è una discontinuità tra individuo e società. Io, come regista e come uomo, voglio capire perché mi sento solo. Nel laboratorio ci sono degli individui, non c’è un gruppo. Max vive una vita isolata, questa è una sua scelta consapevole e una necessità dell’uomo moderno.

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