L’isola che non c’è
Tutta la vita in una notte
E’ difficile, quando si affrontano pellicole di denuncia, o ci si immerge in una realtà sociale lontana da quelle che, a tutti gli effetti, sono le nostre fortune di occidentali, non provare una sorta di amaro senso di colpa, che, seppur effimero, affligge noi spettatori senza lasciare scampo. Con questo lavoro Amos Gitai mostra con piglio secco una delle realtà più crudeli – seppure snobbate – delle miserie che affliggono il già tormentato genere umano. La vendita di ragazze senza futuro che, spinte dalle illusioni fornite loro da trafficanti senza scrupoli (immediato il pensiero agli scafisti “adriatici” e ai pagamenti richiesti ai clandestini), comprano un sogno che mai potrà avverarsi, e la chimera di una libertà distrutta dal solo concetto di essere vendute come prodotti di consumo, attraverso aste che tanto ricordano il colonialismo e le tratte di secoli fa. In una realtà sociale che, a tutt’oggi, resta ancora principalmente maschilista, donne come Rose o Diana sono lasciate a loro stesse, alla violenza dei loro carcerieri e alle promesse di una vita migliore di quella che potrebbero aspettarsi, narrata come una favola da chi, ormai, pare raccontare bugie soprattutto a se stessa.
Sulla strada dei fratelli
Se, dal punto di vista etico, sociale e morale la pellicola del regista di Haifa appare necessaria o perlomeno doverosa, come spesso in passato, mostra il fianco dal punto di vista realizzativo, tecnico e di narrazione: ammetto di non essere mai stato un grande fan del pur coraggioso Gitai, ma, pur partendo forse prevenuto, ho trovato ancora una volta le tracce di quella cattiveria moralizzata che, in genere, fa grandi proseliti ai festival, luoghi molto frequentati dal cineasta israeliano. Così, nello stesso anno del mieloso Mare Dentro (A. Amenabar, 2004) e seguendo la scia dei pluripremiati fratelli Dardenne, Gitai sceglie la via del racconto in stile Dogma, filmato in digitale con una camera a spalla, con pretese di cattiveria assoluta – e quanto mai reale, in questo caso – filtrate sempre e comunque da una precisa scelta di non totalità: si vedano, ad esempio, le due scene di violenza subite dalle ragazze nel corso dei loro spostamenti, mostrate interamente a livello temporale ma quasi inghiottite dal buio, quasi a non sconvolgere troppo uno spettatore che, oltre ad aver già corso il rischio di nausea a causa dei continui movimenti di macchina, pare costretto a immaginare quello che il regista sceglie di non mostrare.
Se, dunque, l’opera di Gitai va certamente lodata per l’impegno sociale in essa profuso, allo stesso mancano certo l’abilità d’intreccio connessa alla realtà dei succitati Dardenne, come il cuore di Ken Loach e la poesia di Abbas Kiarostami, senza dimenticare che il modello per la maggior parte di questi registi, o perlomeno per i più “europei” di loro, resta quell’irraggiungibile maestro chiamato Robert Bresson. Un opera, quindi, riuscita solo per metà, che mi fa pensare a un possibile suggerimento per il regista israeliano: dato il suo coraggio e l’impegno sociale ben definito, perché non dedicarsi completamente a una differente forma di racconto, peraltro recentemente rilanciata presso i festival da Michael Moore, come il documentario?
In questo modo non scalfirebbe idee buone sulla carta e potrebbe continuare a timbrare le presenze a tutti i Festival che tanto paiono attirarlo.
Curiosità
Anne Parrilaud, fredda intermediaria dei nuovi proprietari delle ragazze, fu la prima, vera “dark lady” del passato decennio, dando volto alla letale Nikita di Luc Besson nel 1990.
La consueta tardiva uscita nelle sale italiane di questo Terra promessa può ingannare: Amos Gitai ha infatti già presentato il suo più recente lavoro, Free Zone, al Festival di Cannes appena conclusosi.
Il regista israeliano, nato ad Haifa nel 1950, fu tra gli undici cineasti scelti, nel 2002, per ricordare il giorno dell’attentato al Word Trade Center: attraverso un lungo piano sequenza, Gitai scelse di raccontare i fatti filtrandoli attraverso reporter alle prese con un attentato palestinese in Israele, momento che ricorre anche al termine di questa pellicola.
A cura di Gianmarco Zanrè
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