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Intervista a Zora Kerowa

Zora Kerowa, madrina il 13 e 14 maggio 2005 del Bravo Ma Basta Film Festival di Milano è un’icona del cinema italiano per film come La casa della finestre che ridono (Pupi Avati, 1974), Antropophagus (Joe D’amato, 1980), Cannibal Ferox (Umberto Lenzi, 1981), Lo squartatore di New York (Lucio Fulci, 1982).

Che ricordi hai del periodo tra il 1978 e il 1982? Tredici film in quattro anni ti hanno reso una vera icona del cinema di genere in Italia…

Un ricordo bellissimo, magari ritornasse! Passati i quaranta lavorano solo le solite, lavorano poco, magari in qualche sceneggiata televisiva. In Italia non è come in America dove a quarant’anni puoi diventare famosa, iniziare a lavorare davvero grazie all’esperienza accumulata. E’ una cosa che non dovrebbe succedere ed è successa pure a me.

Come sei arrivata al cinema? Da chi sei stata scoperta?

Ho iniziato a Praga, a 16 anni, grazie alla grande somiglianza con un personaggio che dovevo interpretare. Era un film biografico su un autore austrungarico del 1870/80, Jan Preisler, e io facevo la moglie, una modella, a cui somigliavo veramente molto.
In Italia è uscita per la prima volta una mia foto sulla copertina della rivista Fotografare. Avevo già contattato delle agenzie ma senza risultati, come tante, troppe ragazze che arrivano e vogliono fare le attrici. Ho avuto la fortuna di essere notata ed è arrivato il primo film, Le evase di Giovanni Brusatori.

Così ti sei trasferita…

No, avevo già scelto l’Italia indipendentemente dal lavoro spinta dall’amore, un po’ come tutti, per questo paese. Quando sono venuta per la prima volta, a 18 o 19 anni, mi sono bastati 3 giorni per decidere di rimanere.

Il ruolo per cui sei più ricordata è probabilmente quello di Pat Johnson in Cannibal Ferox di Umberto Lenzi, in cui sei protagonista della celeberrima scena appesa con dei ganci acuminati ai seni. Ti ricordi quando venne girata quella scena?

Mi ricordo ogni secondo di quella scena. Un’esperienza bella, traumatica, dolorosa. Una cosa forte, come sono forti tutte le cose dove c’è la sofferenza vera. Lì c’era sofferenza non perchè ero appesa per i seni, perchè chiaramente non lo ero. Avevo dei ganci di ferro incollati, che oltrettutto hanno lasciato il segno per diverso tempo, e per sembrare appesa ero seduta su una sbarra d’acciaio. Ecco, la sofferenza era nel dover rimanere per almeno 3 o 4 ore con l’osso sacro appoggiato su una sbarra d’acciao che era persino quadrata, mentre facevano un sacco di riprese!

Tra i film del BMB è stato presentato anche un quasi inedito appartenente alla tua produzione cecoslovacca, La Catena. Quando uscì, nel 1981 fu un evento.

Fu un successo di pubblico quasi incredibile, con incassi alle stelle e molti riconoscimenti. E’ stato il primo giallo non sottoposto alla censura del regime comunista: la polizia non veniva idolatrata e c’è pure un delinquente buono. In una scena comparivo completamente bagnata e sul set c’erano 27 gradi sotto zero. Per questo ho preso un premio dallo Stato, non penso sia mai accaduto.

Ti vedi ancora con qualche altro protagonista di quei film?

Li vedo spesso in TV, a Praga tutti i miei film li fanno spesso. Con gli attori non ho tenuto contatti. Luigi Montefiori, giusto lui. Con il regista Gianni Leacche, quello della Squadra, sì, un grande amico.

Secondo te perchè oggi in Italia non esiste più un cinema di genere come in quegli anni?

Non so perchè l’atmosfera sia cambiata. Sicuramente è un fatto di finanze, come in tutto il mondo. E’ diventato una questione di affari e poco altro. Si dice da anni che il cinema è in crisi ma è un problema che parte dalle sceneggiature: quelle buone sono pochissime, bisognerebbe partire da lì per un rilancio.
Io comunque sono una fan sfegatata del cinema italiano, spero di poter partecipare ancora oggi a qualche produzione.

Se oggi dovessi scegliere un regista italiano per cui recitare, chi vorresti?

Chiunque. No magari proprio chiunque no. Tra i nomi più famosi morirei per lavorare con Monicelli, ma so che non succederà. Mi piacerebbe anche Salvatores, o Avati. Con lui avevo parlato due anni fa per una parte, ma non è andata in porto.
Insomma, l’importante è lavorare..

Ti è capitato di fare da madrina ad altri festival come oggi al Bravo Ma Basta?

Sì a Bologna e a Livorno, rincuorata parecchio da domande che iniziavano con: «Tu che sei stata l’icona di un grande genere…». Pensare che io non me ne ero mai accorta, sono lusingata di questa cosa.

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Uno dei premi del Festival porta il tuo nome.

Ho deciso di premiare un film dove i dittatori protagonisti della storia muoiono tutti. Sono nata in un paese dove la censura ci veniva a richiamare se un film non era di gradimento delle autorità. Queste cose non dovrebbero mai più succedere.

Ci rivedremo l’anno prossimo al Giudizio del Pomodoro?

Dipenderà dagli organizzatori, a cui vanno i miei complimenti. Se mi vorranno io sono pronta a tornare.

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