L’ultimo bricolage
Fantasia ma non troppo
Cominciamo con l’ammettere che alle capriole della moderna scienza non ci si abitua mai. Nonostante si finga di tenere sotto controllo l’onda lunga del maremoto tecnologico, cavalcandola con il palmare in una mano e il telefonino umts nell’altra, il senso di vertigine è latente ma c’è.
D’altro canto ci diletta e ci rassicura dare un’occhiata, di quando in quando, oltre il muro del futuribile. Qui, dove il Presente è troppo lontano per fare rumore, attecchiscono film di fantascienza i cui effetti, più o meno speciali, vivono lo spazio di una pellicola e regalano la tanto agognata evasione. Perché è di evasione che si tratta, ora che sono cadute le antiche paure dell’invasione marziana e della guerra dei mondi. Ma cosa accade quando la fantascienza inverte la rotta, si lega al thriller e punta dritta verso di noi? Cosa accade quando si prospetta la conseguenza del male che l’uomo può fare a se stesso? A quest’ultima tendenza appartiene The Final Cut e al giovane regista Omar Naim va il merito di averlo spogliato di qualsiasi connotazione fantascientifica. Centrale per il film è la trovata, peraltro azzeccatissima, del microchip impiantato. Esso è sempre presente, lo stesso protagonista ne ha uno, c’è ma non si vede come la finzione su cui viene spalmato il mondo reale. Dimentichiamoci dunque l’anno 2054 e i computer olografici di Minority Report (id., Steven Spielberg, 2002) per muoverci a ritroso dai giorni nostri fino agli anni settanta. La tecnologia, che pur compare, lo fa in maniera discreta, integrandosi, se non nell’organismo stesso, nell’arredamento: il computer di Alan ha tasti di legno come a voler rifiutare ogni legame con il futuro freddo e metallico per radicarsi letteralmente nel presente. Le atmosfere e gli ambienti dalla tranquillità surreale vagheggiano quelli della serie televisiva Six Feet Under e in effetti ottone e mogano si intonano allo stato d’animo del protagonista. Un Williams dall’interpretazione più che mai vivida, come nel recente One Hour Photo (id., Mark Romanek, 2002) ma qui più combattuto, riesce a scrollarsi di dosso quell’aria da becchino pentito come solo lui sa fare.
Sacra privacy
Il tema è un macigno e lascia intendere da subito che, anche fuori dalla sala, continueremo a sentirne il peso. È pensabile registrare suoni e immagini della nostra vita per poi costituirne il ritratto che lasceremo ai posteri? Possiamo lasciare il potere di dire chi siamo a qualcuno al di fuori di noi stessi? Il “Rememory” non è solo un tributo al defunto, un riassunto sommario o un falso d’autore confezionato ad arte da un abile imbalsamatore d’anime. Esso contiene l’essenza di un sacrificio. Riappare la vittima per eccellenza, quando si parla di modus vivendi: la privacy. E se la coscienza grida vendetta di fronte al massacro sarà l’intimo voyeurismo umano a chiuderle la bocca definitivamente. Cadranno a questo punto la maschera della redenzione e quella del progresso e rimarremo di nuovo nudi davanti allo specchio delle nostre debolezze a chiederci: sarà giusto?
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