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Un inverosimile Modì

Un inverosimile Modì

Dialoghi e bisticci inventati di sana pianta tra Amedeo Modigliani e Pablo Picasso. Motivo del contendere: un’improbabile e grottesca diatriba fra interpretazione romantica e cubista dell’arte. Quadri immaginari di Modì spacciati per veri. Eccessiva enfasi retorica sulla dissolutezza dell’artista livornese. Sempre intento, nella pellicola di Mick Davis, a trangugiare vino e a fumare oppio come una ciminiera. Ma nulla, o quasi, sull’inquietudine intellettuale del pittore italiano. Sulla sua personalissima ricerca che partendo dal fauvismo e dall’influenza di Lautrec, poi incarna la lezione di Cézanne miscelandola a un postromanticismo che mano a mano si fa più carnale, per diventare morbidamente sensuale nella serie di nudi distesi che hanno reso celebre il nome di Modigliani in tutto il mondo. Questo, in sintesi, il desolante ritratto di Amedeo Modigliani ne I colori dell’anima, incurante di ogni seria filologia e semantica dell’arte.

Ma Mick Davis ha deciso così: inventare è meglio che attenersi ai fatti e a una biografia artistica ormai consolidata. Incorrendo nel frequente errore, in fatto di ritratti cinematografici legati al mondo dell’arte, di calcare la mano sugli eccessi di taluni artisti, piuttosto che sulle motivazioni profonde che portano alle avanguardie, e sulle intemperanze e stranezze degli stessi, invece che sulle modalità che trasformano un semplice pittore in un genio dell’arte. Un modo di trattare le correnti artistiche e i suoi maggiori interpreti mediante lo stile frivolo e menzognero dei rotocalchi scandalistici.
Lo stesso era successo in Montparnasse (Montparnasse 19, Jaques Becker, 1958) e nel più recente Modì: vita di Amedeo Modigliani, di Franco Brogi Taviani, trasmesso dalla Rai in tre puntate, nel 1990. Film nei quali, ancora una volta, Modigliani veniva avvolto nella solita veste di pittore maledetto, dannato nell’anima e nel corpo debilitato da una tubercolosi mai debellata. Un copione assai stantio, insomma, che si rifà a una visione romantico-ottocentesca sulla vita e l’opera degli artisti che ovviamente ha fatto il suo tempo. Un cliché intriso della solita e rinnovata scusa per la quale il pubblico non capirebbe che certe, dovute, semplificazioni, in luogo dei difficili “discorsi sull’arte”. Tutte bubbole fuori tempo massimo. Perché mai come adesso gli spettatori, europei e non solo, sarebbero pronti e attrezzati a recepire tematiche anche complesse sulle dinamiche artistiche. Ne fanno fede l’assalto ai musei, alle visite guidate, alle città d’arte e le pubblicazioni specialistiche sull’arte che a ogni uscita riscuotono sempre maggior interesse e proseliti in ogni tessuto sociale e in ogni fascia di età. Chi di dovere, però, dovrebbe informarne i registi. Consigliando loro di non affidarsi più a sceneggiature fai da te, ma a storici e critici d’arte che saprebbero supportarli al meglio.

Detto questo, però, la pellicola di Mick Davis non è tutta da esecrare. Perché al regista scozzese va comunque riconosciuto il merito di aver coagulato attorno al film un cast di attori davvero all’altezza dell’impegno richiesto. Un impegno che imponeva certamente di porre sotto i riflettori la figura di Modigliani, ma al contempo di farci assaporare la Parigi del dopoguerra del primo conflitto mondiale. Già nel 1919, infatti, l’anno in cui inizia la vicenda narrata nel film, la capitale francese si risveglia in mille primavere con lo sbocciare tumultuoso del periodo bohémienne. Periodo a cui seguiranno anni di fondamentali fermenti artistici, che porteranno l’arte moderna al massimo della sua rivoluzione espressiva e formale. Rappresentando con ostinazione questo periodo, Davis, bisogna dirlo, ha giocato la sua atout migliore.
Al caffè La Rotonde, in piena Montparnasse, difatti, Davis fa sfilare non solo Modigliani, ma anche Picasso, Soutine, Utrillo, Cocteau, Jacob, Stein e Apollinaire in una galleria di personaggi che è già arte moderna in quanto presenza, giacché la forza del loro pensiero è bastante a scardinare il consueto per liberare l’originalità creativa di ogni singolo artista o intellettuale al seguito.
Per ridonare quelle atmosfere, Davis, come dicevamo, ha aggregato una serie di attori di indubbio talento. A partire dallo straordinario Andy Garcia che veste i panni di Modigliani e dalla deliziosa e bravissima Elsa Zylberstein, che interpreta la pittrice Jeanne Hébuterne (legata sentimentalmente a Modì), per continuare con un convincente Omid Djalili per Picasso e gli altrettanto bravi Hippolyte Girardot per Maurice Utrillo e Udo Kier per Max Jacob. In tale pantheon attoriale, Eva Herzigova, che interpreta la moglie di Picasso, fa un po’ da bella e silente statuina, ma forse risulta ad hoc proprio per questo.

Infine, va evidenziato che il film celebra, anzi, esalta, il grande amore tra Modigliani e la citata Jeanne Hébuterne, della quale Davis, purtroppo, non sottolinea la notevole caratura artistica, ma solo la sconvolgente devozione per Modì, che la porterà al suicidio il giorno dopo la morte dell’artista italiano. La vistosa mancanza di attenzione verso la produzione artistica di Jeanne Hébuterne (a parte qualche fuggevole disegno mostrato nel film), conferma Mick Davis come un autore distratto e impreciso, così innamorato della propria immaginazione da scambiarla per realtà.

Curiosità
Chi volesse approfondire seriamente la vita e l’opera di Amedeo Modigliani, può farlo all’interno degli “Archives Légales”, creati da Jeanne Modigliani, figlia di Amedeo. → Link

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