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Lo struggente sguardo del destino

Lo struggente sguardo del destino

L’approdo distante della pelle dolce di Giuseppe Carrieri

La macchina da presa esplora un muro di graffiti; in dissolvenza ci accorgiamo di essere in una galleria d’arte infantile senza età – il film è iniziato da pochi secondi e già, attraverso quel calco, ne abbiamo raggiunto le profondità.
Con la consueta intelligente regia di Marco Tullio Giordana e le firme degli autorevoli Sandro Petraglia e Stefano Rulli, Quando sei nato non puoi più nasconderti si presenta agli occhi dello spettatore come un’opera importante, una moderna tragedia sul mondo dei più piccoli divisa in tre atti, che poi sono tre epoche della vita di tutti noi: l’ingenuità dell’incoscienza, il momento della scoperta, il dramma delle nuove consapevolezze.

Sandro, dodicenne, si domanda cosa abbia da guardare verso di lui una prostituta e si strugge sul lamento di un extra-comunitario che schiaffeggiandosi maledice il destino dell’invisibilità e della solitudine umana.
Sandro vive nella timidezza e nella riservatezza, nascosto nei suoi interrogativi e inerte nella noia delle sue incomprensioni – imparando così, da solo, il duro mestiere di vivere.
Il viaggio in barca a cui partecipa insieme al padre diventa così metaforicamente il culmine del suo smarrimento – l’urlo inane che lancia contro il cielo unisce la persistente esigenza della magia dell’infanzia (continua infatti a invocare la madre) con la necessità di una nuova forza interiore (superiore) che nasce proprio da quel mare in cui si è perso.
Un mare che lo immobilizza, lo nasconde ma che allo stesso tempo lo avvolge come fosse placenta e lo rigenera. Con il supporto di una fotografia meravigliosa, assistiamo così ad una ri–genesi marina dalle luci chiare che sancisce così la definitiva morte dell’innocenza di un’anima (Sandro che cola a picco negli abissi): in questo consiste il tragico viatico del nostro piccolo eroe.
Una volta riemerso si ritroverà esploratore di un nuovo cosmo; un cosmo che non ha questa volta però la forma di una comoda barca a vela, ma quella meno sinuosa e scura di un barcone di migranti disperati.
In una condizione di straniero tra stranieri, il bisogno di risposte che prima aleggiava nel suo sguardo si consuma nella maniera più feroce e inevitabile che potesse immaginare.
Il contatto con quella carne sopraffatta d’alienazione – la scoperta dell’abiezione di una morte invisibile (quella del clandestino gettato nel mare) e tutto ciò che discenderà da quel viaggio disumano dell’abbandono – in particolare il tradimento dell’amicizia e la scoperta di una sessualità orribile – sono il nuovo punto di partenza su di cui il corpo sporco di Sandro naufrago costruisce la propria restaurata identità.
Da essere nascosto e dalle poche parole, il giovane manifesta una maturità e una risolutezza che ne fanno molto più semplicemente, un uomo.
La disillusione con cui comunque è costretto a confrontarsi in questa sua “adulterità” è difatti solo sconfitta dal solo luminoso sorriso di Alina.

La piccola rumena con cui Sandro lega, col suo viso da bambina macchiato da donna cresciuta anzitempo, che svela la sua voce solo con le note di una canzone di Eros Ramazzotti, è infatti il residuo di poesia che dà ancora senso a questa lotta di vivere, la sua fragile e precaria umanità è la solida base su cui Sandro potrà installare il suo modo di continuare a (soprav)vivere e amare.
La struggente fine, muta, sporca di macerie (non da guerra, ma di lavori stradali) – che rievoca la rosselliniana passione di Germania anno zero (1947) – è un commovente momento di sublime e pura intimità, amore e rispetto reciproco ed è anche per questo che la macchina da presa, con grande delicatezza, decide di rapportarsi alle loro vite con una distanza densa di riverenza.
E’ una visione distante dal mondo scrutato (gestita sapientemente dallo stesso regista) che però non si raffredda in tale lontananza; è una distanza ideologica che misura l’inesorabile disincanto di un momento di vita nostra, dell’adozione del nostro punto di vista consapevole e dolente sull’esplorazione del mondo, il disincanto in cui la pelle dolce dell’infanzia (e le note truffautiane di Georges Delerue esprimono proprio nella loro soave melodia questo concetto) incomincia a striarsi della ruvidezza degli anni e del peso della coscienza. L’approdo al proprio sé attraverso l’Altro.

Sguardo intimo e genuino di Matteo Mazza

Cos’è un abbraccio? Un’espressione. Di un sentimento. Che è genuino. Uno scambio. Di energie. Che sono intense. Una libertà. Da una preoccupazione. Che stringe lo stomaco. Un’emozione. A volte la più vera in una relazione. Più di un bacio. Più di un saluto. Più di una pacca su una spalla. O di una carezza. E’ l’intimità. Non l’unica certo, ma una delle più importanti. Da preservare.

Quando sei nato non puoi più nasconderti è intima genuinità. Perché Giordana non vuole bene solo ai suoi personaggi. Ma anche al suo pubblico. Parla al suo pubblico genuinamente con le storie di personaggi veri. Non finti. Che soffrono e che crescono. Gente comune, magari più fortunata di altri, per denaro o capacità. Persone vive. Che sbagliano e scelgono. Cercano e magari trovano. Forse poi muoiono. Ma vivono nei ricordi di chi rimane in vita.
E’ buio in camera. Sandro (Matteo Gadola) sta dormendo. Ora non può più nascondersi perché i suoi occhi gli hanno fatto vedere troppo. E’ rinato. Non può fare finta. Non può evitare. Deve crescere prima degli altri. Deve respirare. Sta aspettando nei suoi sogni la mamma (Michela Cescon) e il papà (Alessio Boni). Loro arrivano. Lui dorme. La mamma sta per abbracciarlo. Il papà la ferma. Li ritroviamo il mattino seguente che parlano, tutti e tre. Sereni. Si sono abbracciati ma non abbiamo visto. I nostri occhi non sono entrati ad invadere il momento più importante per la famiglia. Non hanno visto le lacrime. Non c’era musica. Tutto vero. Intimo. E genuino.
Nell’abbraccio “mancato”, di una delle sequenze emotivamente più cariche, cogliamo l’essenza del film e dell’intero cinema di Giordana. Fatto di persone che coabitano luoghi. Che vivono esperienze. Viaggiano. Che sentono sulla pelle la vita che passa.

Giordana parla di italiani. Di persone. Non di gente. Ci racconta di una famiglia bresciana che confonde generosità e carità. Ci mostra come il razzismo sia sempre più costanza italiana. Ci porta davanti al cancello di una fabbrica “occupata”. Dove c’è chi si nasconde. e chi sputa sentenze. Il clandestino ruba in casa. E la gente a volte se ne frega.
Questo è un film intelligente. Sia per le questioni che solleva. Sia per le scelte che Giordana regista e sceneggiatore, compie. Mancando completamente lo sfruttamento del dolore. Soffermandosi piuttosto in una riflessione personale e sincera della sofferenza, del disagio, del senso di colpa. E del diverso. Che spaventa.

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