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La nostra vita è una serie di guerre

La nostra vita è una serie di guerre

A un solo anno di distanza dall’esordio letterario con “Sharon e mia Suad Amirysuocera”, la battagliera professoressa di architettura dell’Università di Birzeit torna a raccogliere i suoi ricordi privati per offrirli in testimonianza a chi conosce la perenne guerra del Medio Oriente solo attraverso la stampa, la storia e la saggistica. Le informazioni che Suad Amiry ci fornisce nei suoi vivaci racconti – di nuovo movimentati da Umm Salim, vale a dire “la mamma del marito Salim”, vale a dire l’arzilla suocera di cui sopra – sono dettagli preziosi per capire come realmente la vita quotidiana si svolga nella Palestina Occupata.

I giornali non spiegano come si fa la spesa durante il coprifuoco, come si debba caricare la macchina all’inverosimile accertandosi di acquistare prodotti conservabili a lungo, perché non si sa quando sarà la prossima volta, né raccontano quale dono prezioso possa essere una confezione dell’introvabile Earl Grey Tea. Testimonianze importanti, soprattutto per le generazioni più giovani che, conosciuta a malapena la Germania divisa in due dal Muro e dalla polizia pronta a sparare sui fuggiaschi Ostberliner, probabilmente ritiene i checkpoint e i coprifuoco una realtà distante nel tempo e nello spazio. Invece il tempo è quello dell’oggi e il luogo è a noi addirittura più vicino in linea d’aria rispetto alle celeberrime coste del Mar Rosso.

Così vicino, e pure succede che una donna, e come lei chissà quante, debba aspettare sette anni per ottenere una hawiyyeh, una carta d’identità che le permetta di raggiungere il marito, e di poter andare ad Edimburgo a discutere la sua tesi di dottorato, e che riesca ad ottenerla solo per aver atterrito un capitano dell’esercito di Israele sfinendolo con una simulata crisi isterica. Perché anche in guerra, «tutti gli uomini non sanno cosa fare con una donna in lacrime».

Probabilmente Suad sa che sono queste informazioni, più che i resoconti di geopolitica, a svegliare la sensibilità del pubblico, e allora attinge a piene mani dalle vicissitudini della sua famiglia e dei suoi amici per creare un nuovo mosaico di racconti, ambientati tra il 1980 ed oggi, come a sottolineare la perseveranza e la longevità di questo conflitto.

Come per Sharon e mia suocera la narrazione risulta godibilissima, e le riflessioni crude e smaliziate e lontane dall’onnipresente buonismo giornalistico, appaiono preziose a chi voglia accostarsi a una situazione della nostra contemporaneità che appare spesso così complessa da scoraggiare ogni tentativo di comprensione, per coglierne, al di là degli aspetti più propriamente politici e storici, la dimensione umana.

A onor del vero bisogna però notare l’assoluta parzialità della testimonianza di Amiry, che mai, nelle 150 pagine di questo libro, né nelle altrettante del precedente, pronuncia un giudizio favorevole su un solo israeliano. È accettabile, seppur discutibile, un integralismo feroce contro il nemico, contro il militare occupante e contro l’oppressore; ma mai contro l’uomo e il popolo a cui appartiene. E purtroppo Amiry, nell’affermare «Con gli israeliani non ci sono mai buone notizie senza cattive notizie» sembra fare esattamente questo gioco; e dicendo «il mondo intero è colto di sorpresa quando, ogni dieci o vent’anni, decidiamo di far sentire la nostra voce. E’ successo nel 1929. Nel 1936. E di nuovo nel 1987.» sembra soprassedere sul fatto che il mondo sia colto di sorpresa non solo da quanto la resistenza palestinese sia dura a morire, ma anche da quanto quella voce di cui la professoressa va tanto orgogliosa sia costata ai civili israeliani, tra cui molti bambini, vittime degli attentati suicidi. E sembra dimenticare che se è vero quello che dice il suo amico Gorge, «la nostra vita è una serie di guerre», questo è altrettanto vero per gli israeliani.

Suad Amiry, suo marito Salim con la mamma Umm Salim e la cagnetta Nura, vivono a Ramallah. Suad insegna all’Università di Birzeit, ha fondato e gestisce il Riwaq Center for Architectural Conservation e si occupa di architettura palestinese. Con il suo primo libro Sharon e mia suocera (Feltrinelli, 2003) ha vinto il premio Viareggio Internazionale.

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