hideout

cultura dell'immagine e della parola

Most of what follows is false

Most of what follows is false

Nelle sequenze iniziali di uno dei western più visti nella storia del genere, Butch Cassidy and the Sundance Kid, di George Roy Hill (1969), il Wild Bunch prepara uomini e cavalli per assaltare un treno a fondo valle. Quello che vediamo è la proiezione di un vecchio film dei primi del 900.

La banda di Butch e Sundance, si sciolse pressappoco in quel periodo, durante le riprese di The Great Train Robbery (1903) Edwin S. Porter. “Most of what follows is true”, è la frase che campeggia alla fine della scena d’assalto e a questo punto è spontaneo galoppare a briglie sciolte nella prateria delle fantasticherie con alcune domande stuzzicanti: e se Cassidy e Porter si fossero incontrati per girare un film? Butch avrebbe girato volentieri un film su stesso, però Porter avrebbe scelto la strada del documentario e tutto sarebbe rimasto in sgabuzzino. George Roy Hill, diversi anni dopo ci avrebbe girato il suo film, raccontando una delle storie possibili.

Su questo territorio immaginario, popolato da fuorilegge, registi e fantasmi, Mario Bonaldi mette la sua firma. Con un’originalità da scrittore “di frontiera”, abilmente a cavallo tra verità storica e finzione letteraria, capace di superare quella scritta tremula e razionale che campeggia nel film di Hill del ’69, con la sua più postmoderna: “Most of what follows is false”. Un viaggio biografico, quello di Bonaldi, che parte dalla vita e (soprattutto) dalle menzogne di (e specialmente “su”) Etta Place, la compagna di avventure e amori dei due bandoleros americani, un viaggio che sembra senza destinazione e che d’un tratto corre verso un finale magistrale.

Attingendo dalle zone più turpi e oscene che affrescano la quotidianità del Mucchio Selvaggio, saliamo su un treno stipato di casi umani. Destinazione: gli intriganti canyon della memoria del West di fine Ottocento, i piani, le rapine e la psicologia degli outlaws più famosi della frontiera. Sicuramente più conosciuti di Etta Place. Su di lei nulla è stato detto in Italia e molto poco troviamo oltreoceano, dove visse e misteriosamente scomparve. E proprio su di lei Bonaldi fa luce, a modo suo, accendendo spotlight solo dove necessario e con effetti di distorsione accattivanti. Le accende sul corpo e la personalità di Etta, banditessa che usava una Derringer col manico in porcellana per le rapine in banca e lenzuola sempre candide quando intratteneva un cliente al bordello.

“She was a great houskeaper, but a whore at heart”. Gran donna di casa, ma con un cuore di puttana. Questo pensava con rammarico Cassidy di lei, forse perché tra i due, Ethel bazzicava più spesso con l’ombroso Sundance. Ma cosa pensava Etta di lui? Questo è forse l’aspetto clou di tutta l’opera: i monologhi che ci fanno entrare dentro il bandito in rosa, ci vestono dei suoi abiti di casalinga, ladra o puttana, ci fanno sentire il dolore per l’appendicectomia o una violenta iniezione di carne subita dall’ultimo cliente al Fanny Sporting House.

Etta, ma il suo “vero” nome fu Ethel, è la compagna “morale” e “affettiva” di Butch Cassidy e Sundance Kid. La banditessa diventa una sorta di sonda, calata dall’autore nei bassifondi umani popolati da fuorilegge, bifolchi emarginati in cerca di riscatto. Etta è l’osservatore privilegiato per avventurarsi tra banche e bordelli, ladri di vacche e upper class newyorkese, occhio capace di coglierne i particolari, brandelli di ricordi dei personaggi, prendere spunto dai loro racconti e partire sulla tangente di storie avvincenti, alcune forse vere, altre inventate di sana pianta e, proprio per questo, le più gustose da leggere.

Non c'è ancora nessun commento.

Lascia un commento!

«

»