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Il vecchio e l’isola

Il vecchio e l’isola

Dopo il momento pop-kitch di Alexander (id., 2004), torna Oliver Stone. Lo ritroviamo con un documentario girato nel 2003 ma che solo ora ha trovato posto nelle sale (ne usci una versione tv, riveduta e corretta, dal titolo Looking for Fidel – id., 2004). Innanzitutto dispiace per l’operazione di censura strictu sensu, ma soprattutto perché la docu-intervista del regista statunitense si rivela allo spettatore come la sua analisi storica forse più lucida ed intellettualmente onesta. Tecnicamente, è una intervista a quattro camere montata con immagini di repertorio e parecchio girato raccolto nella capitale dell’isola caraibica.

Oliver Stone, consapevole dell’ingombro di una troupe più adatta forse al set di una fiction, abbatte la Quarta Parete, lascia che cameraman e produzione entrino in camera, dividendo idealmente lo schermo in intervistatore ed intervistato.
A far da ponte Juanita Vera, la traduttrice, che entra in audio creando continuità, ma anche rumore e instabilità.
L’effetto è quello della piazza, il posto più rappresentato dalle immagini di repertorio, l’agorà in cui si muove Fidel e in cui la troupe cerca continuamente una sua dimensione. Il risultato è il pellegrinaggio del regista statunitense nel mondo carismatico e affabulatore di uno dei più grandi personaggi politici ancora in vita, e non c’è dubbio su chi sia il battitore che conduce il gioco.
Fin dalle prime drammatiche inquadrature siamo di fronte a un anziano. Si, proprio così, un vecchio in divisa che veste un paio di improbabili Nike nere e che parla lentamente, agitando le sue mani nodose avvizzite dal tempo. Poi, ancora i movimenti di macchina sottolineano le rughe, la barba rada e l’incedere instabile. Ma il comandante raccoglie la sfida e risponde a ogni domanda con disincantata allegria, seducendo ed eludendo, sorridendo e mentendo con gli occhi. Una ars oratoria ineguagliabile, assolutamente unica. «E’ stato come intervistare una grande star del cinema, una specie di Marcello Mastroianni» dirà alla presentazione dell’opera il regista, e nessuno spettatore in sala faticherà a crederlo.
In tutto ciò Castro parla della sua amicizia con Hemingway, del suo rapporto con Dio, di amore e delle sue frustrazioni («Cuba fu usata sia dagli Usa che dall’URSS»).
Risponde alle accuse di tortura e parla anche del caso del piccolo Eliàn Gonzales, un vero e proprio intrigo socio-politico che minò la serenità dell’amministrazione Clinton, restituendo consensi alla sua figura tra le mura domestiche.

Stone incalza parlando di storia.
Fidel risponde sempre in maniera esaudiente, senza celare una conoscenza enciclopedica dei fatti dello scorso secolo e alcune sue considerazioni sui personaggi che lo hanno popolato. Sicuramente, da navigato esperto del mezzo mediatico qual è (nei comizi della televisione Unica cubana è in grado di parlare per intere giornate), il Lider Màximo si districa tra le domande, riuscendo a occultare le verità più scomode e l’incertezza che annuvola il futuro cielo cubano.
Ma, pur ammettendo di aver commesso degli errori, non rinnega mai se stesso.
Ed è in questo senso che il regista newyorkese ne traccia un’immagine titanica ma umana al tempo stesso, che affascina e convince.
«Se non avesse vinto se ne starebbe seduto su una panchina a parlare della rivoluzione?» «No…sarei morto».

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