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Mi chiamo Pitt, Dirk Pitt

Mi chiamo Pitt, Dirk Pitt

Per incominciare divido precauzionalmente in due categorie gli spettatori che andranno al cinema con il “bigliettone” per vedere questo film: chi ha letto e amato i libri di Clive Cussler e chi no. Per i primi ci sono principalmente cattive notizie per i secondi invece le notizie potrebbero essere anche buone. Per queste ultime ho utilizzato il condizionale perché se ci si aspetta un’avventura esotica ed avvincente sul modello Indiana Jones allora siamo fuori strada, ma se i film sul genere Bond e pronipoti acquisiti piacciono, XXX (id., Rob Cohen, 2002) per fare un esempio, allora questo filmetto potrebbe anche interessare.
Per i poveri appassionati delle avventure di Dirk Pitt (tra i quali c’è anche il sottoscritto) invece c’è poco da rallegrarsi perché dell’eroe studioso, coraggioso e sognatore in questo McConaughey ce ne è ben poco. Per carità il ragazzo si è impegnato, ha messo su anche un bel fisichetto da atleta, ma l’umorismo sottile e sarcastico che caratterizza più di ogni altra cosa Pitt era un limite irraggiungibile di cui bisognava prendere atto già in partenza. Gli sceneggiatori forse pensavano al Bruce Willis della serie Die Hard più che al protagonista dei romanzi di Cussler, visto il livello penoso delle battute messegli in bocca.
Che dire poi degli altri personaggi: l’ammiraglio Sandecker è ottimo (merito soprattutto di William H. Macy, forse l’attore più sottovalutato di Hollywood), Giordino è appena accettabile, Rudi Gunn risulta quasi imbarazzante, ma queste informazioni probabilmente interessano solo ai cultori di Cussler.

Analizzando il film va detto che un’operazione cinematografica di questo tipo certamente non era facile da affrontare. A una schiera infinita di produttori esecutivi e associati, si è aggiunto con il tempo un vero e proprio team di sceneggiatori tutti agli ordini del giovane ed esordiente regista Breck Eisner. Questo cocktail organizzativo, non proprio omogeneo (resta ottima solo la scelta del meraviglioso deserto marocchino come location), da subito ha fatto storcere il naso agli spettatori; anche perché i centotrenta milioni spesi per il progetto, di dubbia presa sul pubblico di teenager americani ormai ipnotizzati solo più dall’ondata horror&comics, difficilmente saranno recuperati.
Certo non era facile ridurre in due sole ore di pellicola le coinvolgenti cinquecentocinquanta pagine di Sahara, e probabilmente i tagli obbligati non sono nemmeno il lato più negativo della sceneggiatura; il reale problema è l’impossibilità di comparare il ritmo di un testo scritto a quello cinematografico. L’azione e la relazione tra i personaggi si costruiscono su grammatiche così diverse che da un grande libro è quasi sempre impossibile realizzare un grande film. Ripescando nel passato sono davvero poche le pellicole che hanno retto il paragone con l’alter ego cartaceo (Giungla d’asfaltoThe Asphalt Jungle, John Huston, 1950 – da un testo di W.R. Burnett è un ottimo esempio), e sarà interessante vedere il prossimo anno le trasposizioni di Profumo di Tom Tykwer da Patrick Suskind e del Codice da Vinci di Ron Howard da Dan Brown.
Il cinema che si rivolge sempre più alla non originalità (fumetti, romanzi, sequel e remake) si trova in questi anni a una svolta narrativa, e se il futuro dovesse essere valutato guardando Sahara le previsioni non sarebbero sinceramente tanto rosee.
A questo punto potrebbe diventare profetico un motto (non originale) neozelandese: «se vuoi fare veramente un gran film da un libro devi girarne almeno tre» (Peter Jackson)

Ps: Il mio voto è stato un sei di incoraggiamento, perché nei giorni in cui al cinema esce il film di Costantino e Daniele penso ce ne sia veramente bisogno.

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