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Litigare, non sempre, fa bene

Litigare, non sempre, fa bene

Popeye, la appena diciottenne Evan Rachel Wood, la più giovane componente della famiglia Wolfmeyer, è la voce narrante di questa pellicola, sceneggiata e diretta dal regista–attore Mike Binder. Una pellicola che avrebbe i numeri giusti per poter fare breccia nei cuori e nei gusti della gente ma che sin dal titolo, erroneamente tradotto in italiano, racchiude una serie di luoghi comuni e una trama fin troppe volte vista: una madre, in questo caso alcolista e schizofrenica, abbandonata da un marito invaghitosi della propria segretaria di origini scandinave, una prole composta da figlie di varie età con i loro problemi adolescenziali che non si rassegnano facilmente alla “scomparsa” del padre che ha preferito abbandonarle.
Litigi d’amore è un film che, nonostante la trama da commedia dei buoni sentimenti, lascia piacevolmente intravedere una misuratissima recitazione firmata da Kevin Costner, che risulta sincera e convincente come quelle di un tempo. L’ex premio Oscar si ricava una parte equilibrata in un ruolo che già in passato ha più volte ricoperto: il giocatore di baseball, o il semplice appassionato di questo sport, come avveniva nell’Uomo dei sogni (Field of Dreams, Phil Alden Robinson, 1989), che a fine carriera decide cosa fare della propria vita. Non muovendosi mai al di sopra di un attenta rivisitazione del ruolo di amico fedele che d’improvviso si scopre attratto dalla vicina di casa, in questo caso decisamente eccessiva e sopra le righe.

La signora Terry Wolfmeyer, interpretata dall’abile caratterista Joan Allen, risulta troppo imprigionata nel cliché di donna cui l’abbandono del coniuge ha cambiato radicalmente il carattere che spesso la porta a reazioni impreviste e imprevedibili. È un’algida madre di quattro ragazze (che paiono uscite direttamente dal romanzo di Louisa May Alcott Piccole donne) cui la signora Wolfmeyer non pare in grado di dare un supporto se non in presenza di Kevin “Danny“ Costner e di un bicchiere di Vodka.
Le quattro attrici che interpretano le giovani protagoniste non fanno altro che adeguarsi a una sceneggiatura che vuole cedere la palma della protagonista alla Allen, anche in tal caso perdendo una valida occasione per cercare soluzioni atipiche e differenti, capaci di slegare la trama da un genere già troppe volte visto e visitato.
Una nota di merito a questa pellicola, che purtroppo finirà nell’oblio dei film visti frettolosamente, va alla toccante inquadratura conclusiva, che abbraccia in pochi secondi la crescita delle “piccole donne” finalmente diventate giovani adulte nella loro lenta trasformazione da bambine obbligate a convivere con l’idea dell’abbandono del padre al colpo di scena finale, con conseguente repentina presa di coscienza e abbandono di un odio che in fin dei conti non si era mai concretizzato nelle quattro ragazze se non attraverso l’astio provato dalla madre.

Curiosità
La sceneggiatura scritta da Mike Binder è stata creata appositamente per Joan Allen. Lo stesso Binder, che si cimenta in questa pellicola nel ruolo di Adam “Shep” Goofman, in precedenza aveva lavorato come attore nel film Minority Report (id., Steven Spielberg, 2002) nel ruolo di Leo Crow.

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