Il cinema balcanico, ovvero la poetica dell’irrazionalità
In La vita è un miracolo (Zivot je cudo, Emir Kusturica, 2004) la guerra è inscatolata in un televisore. Il conflitto, pur essendo un fattore narrativo dominante – divide e ricompone la famiglia di Luka, determina la partenza del figlio al fronte – non è mai direttamente visibile. Il fronte non è definito e concreto, tutt’al più scorre sotto gli occhi di Luka lungo la ferrovia.
Questa modalità di rappresentazione della guerra non è una novità. Il racconto che il cinema balcanico ha formulato sulla guerra del 1992 è indiretto, metaforico, surrealista. La vita è un miracolo sembra confermare una tendenza espressa al meglio in Underground (id., Emir Kosturica, 1995) e in No man’s land (id., Danis Tanovic, 2001), ma che riaffiora anche in film meno conosciuti, come La polveriera (Bure baruta, Goran Paskaljevic, 1998).
Kusturica e Tanovic non spiegano la guerra. Non ci si sofferma sulle cause storiche e sociali del conflitto, piuttosto si raccontano storie individuali, che conseguentemente racchiudono in sé i grandi drammi dell’uomo: l’amore, la vita, la morte. La narrazione compie una deviazione attorno al tema bellico, che rimane sotteso, non se ne discute mai in maniera frontale. E questa deviazione narrativa trova una corrispondenza sul piano visivo: non ci sono immagini che ricostruiscono le dinamiche storiche della guerra, la situazione al fronte, le battaglie. L’immagine filmica si limita a raccontare la diegesi dei personaggi, la Storia trapela attraverso filmati di repertorio, come in Underground, o tramite i servizi giornalistici televisivi, come in No man’s land e in La vita è un miracolo.
No man’s land racconta la storia di una microguerra in una trincea combattuta fra due uomini con una vittima in mezzo. Le corrispondenze con la macroguerra che imperversa fuori sono troppo evidenti per non cogliere la metafora che lega le due battaglie: ci sono un serbo e un bosniaco che si combattono, e una vittima per ciascuna fazione. Uno già morto, l’altro in attesa di morire. La guerra fuori dalla trincea resta nel fuori campo anche per lo spettatore: l’unica, breve scena di battaglia iniziale è sottratta alla visione perché immersa nella nebbia, che impedisce ai personaggi – e allo spettatore – di vederci chiaro. La scelta di Tanovic è opposta a quella del film inglese Welcome to Sarajevo (id., Michael Winterbottom, 1997). Qui si racconta la strategia bellica per cui la guerra nei Balcani si è distinta: la sparatoria fra cecchini nelle vie della Sarajevo assediata. Tanovic rinuncia alla rappresentazione dello scontro aperto fra serbi e bosniaci, ma coglie nel segno un’altra specificità della guerra nei Balcani: la rappresentazione che i media ne hanno dato.
La necessità dei media di fagocitare la guerra nel proprio flusso onnivoro – e di darne conseguentemente una struttura narrativa – è la vera battaglia che si combatte attorno a Cera, Ciki e Nino. No man’s land racconta la genesi della narrazione televisiva, mettendo in luce quei processi di falsificazione e spettacolarizzazione del tutto automatici nel passaggio dall’avvenimento reale al resoconto televisivo.
La scelta di mostrare la macroguerra solo attraverso le immagini dei servizi televisivi assume allora un senso ben preciso. Tanovic ci racconta quella guerra non secondo il punto di vista dei Balcani, ma secondo la prospettiva occidentale, attraverso quelle immagini che tutto il mondo ha visto scorrere nei televisori. Ma, contemporaneamente, ci mette in guardia sui processi mediatici che hanno prodotto quelle immagini, sottolineando lo scarto fra l’avvenimento e il resoconto che se ne dà. Non solo: la prospettiva che ci offre non dà la propria versione dei fatti sulla guerra, raccontando degli eventi storici secondo dei processi di causa – effetto. Sceglie, invece, un punto di vista minimo, interno, chiuso in una trincea, da cui non è possibile vedere fuori.
Forse il cinema si prefigge uno scopo diverso da quello della televisione. Il cinema non cerca cioè di raccontare la guerra secondo una prospettiva onnicomprensiva, di spiegazione dei fatti storici. No man’s land si chiude sulla vicenda di tre uomini, perché è questo ciò che il cinema vuole indagare: l’uomo, e il cuore di tenebra che emerge in una situazione di guerra. Il cinema sceglie questo oggetto di osservazione perché è ciò che la televisione non saprà mai (e probabilmente non vuole nemmeno) spiegare.
La guerra nella ex-Jugoslavia è stata un concentrato di tutti gli orrori del Novecento: il genocidio, i campi di concentramento, i desaparecidos, gli stupri, le vittime civili, i cecchini fra le vie di una città assediata. [img4]Il cinema riconosce che non c’è spiegazione razionale alla crudeltà umana che ha compiuto tutto questo. Ecco perché ripiega su una poetica dell’assurdo, del surrealismo. Il cinema balcanico è accusato di saper realizzare solo film “alla Kusturica”, ma probabilmente l’approccio grottesco alla realtà non è il frutto della poetica specifica di un singolo autore, ma una necessità sociale di rielaborare una Storia perennemente instabile, adagiata su una mina che può esplodere da un momento all’altro. Tentare di comprendere in ogni sua componente l’orrore che riemerge a ogni conflitto equivale a brancolare nella nebbia. La funzione del cinema, allora, diventa porre la stessa domanda, nell’ossessione di non saper dare una risposta: “Chi ha cominciato? Di chi è la colpa?”.
A cura di Fabia Abati
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