Viaggio sulle ali della non-libertà
The jacket è uno di quei film che non possono essere definiti in modo semplice e univoco. Siamo di fronte ad a un oggetto di natura informe e magmatica, in cui l’unica struttura concettuale che sembra dominare sulle altre è quella dell’eterno ritorno. Insomma, il finale riconduce all’incipit e il futuro interagisce col passato nella stessa misura in cui ne è determinato. Di fronte a un simile prodotto, possiamo soltanto scegliere un punto di partenza e procedere nella nostra analisi, consapevoli del rischio di arrivare a ritrovarci proprio nello stesso punto in cui avevamo incominciato.
Facciamo dunque la scelta più scontata ed intuitiva: partiamo dal titolo. The jacket, la camicia di forza, simbolo per eccellenza della non-libertà, della costrizione, vero e proprio oggetto semantico da cui si irradiano i significati fondamentali dell’enunciazione filmica.
Non a caso, infatti, i due protagonisti rispondono ai nomi di Jack e Jackie, e rappresentano due figure “imprigionate” in un futuro già scritto, in fuga da un passato che il primo non può ricordare, e che la seconda vorrebbe dimenticare.
Allo stesso modo, la camicia di forza “genera” intorno a sé l’ambientazione principale del film, un manicomio situato in una fredda ed impervia zona montuosa, luogo designato come punto di partenza e contemporaneamente meta finale di una serie di movimenti di allontanamento e ritorno, che investono sia la dimensione spaziale che quella temporale.
La camicia di forza, infine, ricopre il luogo del motore principale. E’ il dispositivo che di fatto innesca l’inquietante trip mentale nel quale Jack si trova proiettato in un futuro che lo vede morto da più di dieci anni. Ma sarà proprio in questo contesto temporale che, coinvolto nella storia d’amore con la bellissima Jackie, il protagonista troverà la determinazione per affrontare varie difficoltà nel tentativo di costruire un futuro (e un passato) migliore.
A livello prettamente stilistico, The jacket mescola elementi del thriller psicologico, della fantascienza e del dramma sentimentale, rivelandosi una geniale alchimia di generi e stili. Questo aspetto emerge tanto sul piano contenutistico quanto su quello formale. Ed è proprio su quest’ultimo livello che si collocano gli elementi di maggiore pregio della pellicola. Primo fra tutti, un montaggio allucinato e disorientante, reso tramite stacchi netti, asincronie sonore e fortissimi contrasti di colore.
L’intero film, inoltre, è immerso in un’ambientazione fredda e malsana, dominata da inquadrature sghembe, cromatismi cupi e sinistri cigolii.
Fra i pochi difetti si segnala qualche leggerezza nella sceneggiatura, che lascia in sospeso alcuni spunti e dimentica diversi interrogativi irrisolti. Ma forse anche questo fa parte del gioco, perché The jacket non ha regole: non c’è possibilità di definire una canonizzazione di genere precisa, né di intuire i possibili risvolti della trama, né, tantomeno, di comprendere davvero a fondo ciò che si para davanti ai nostri occhi. Un film libero, dunque, in netta antitesi con il significato del titolo. Come a dire che la libertà nasce proprio dal suo opposto, dalla costrizione della camicia di forza. Ma ecco, ora siamo davvero tornati all’inizio.
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