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L’ombra del serial killer

L’ombra del serial killer

Allucinazioni senza originalità di Ciro Andreotti

Prendete un assassino che si diverte a percorrere migliaia di chilometri per fermare persone qualunque e sezionarne il viso in più parti, aggiungetegli un poliziotto troppo sbrigativamente sollevato dal suo incarico precedente a causa di un cavillo legale. Il risultato ultimo è il tema di questo secondo sforzo cinematografico di E. Elias Merhige, che dopo aver diretto un buon successo di nicchia nel 2000 (L’ombra del vampiro – Shadow of the Vampire) torna dietro alla macchina da presa con un prodotto decisamente più conforme a quelli attualmente in circolazione.

Una pellicola narrata con fare frammentario, ma al tempo stesso curioso, che sposta l’attenzione sulla figura di un assassino in preda ad allucinazioni, ruolo impreziosito da un Ben Kingsley che non trova minimamente scalfita la sua bravura nonostante l’incessante passare degli anni. Allucinazioni che verranno poi spiegate solamente a film quasi ultimato, facendone virare improvvisamente il genere di appartenenza, dalle pagine della cronaca nera a quelle della scienza più occulta. Film che però nel complesso delude per la scarsa profondità del profilo psicologico dei personaggi, cui la sceneggiatura non aggiunge alcun tipo di originalità, trattando un argomento, quello del killer che impiega quale referente delle indagini un agente con il quale crede o pensa di avere qualche affinità, già ampiamente sfruttato.

La pellicola non ottiene molto di più da una serie di ruoli interpretati in maniera completamente fisica, causa una trama ridotta all’osso, ove le parti di spicco, a parte quella di Benjamin O’Ryan (Kingsley) sono assegnate ad una serie di caratteristi, fra i quali spicca la rediviva Carrie Anne Moss, finalmente tornata sulle scene dopo la conclusione della saga di Matrix e la successiva gravidanza. Poco altro purtroppo sul fronte di una interessante sceneggiatura che se meglio approfondita e dilatata in maniera più psicologica, senza per forza abbandonarsi a scene prevedibili di inseguimenti e sparatorie, avrebbe potuto dare una svolta decisiva sia alla carriera di questo regista quarantenne dalle belle speranze, oltre che al genere del Police procedural che spessissimo ha prodotto valide pellicole.

Vedo, prevedo e stravedo di Carlo Prevosti

Alcuni anni orsono. Un paio di squilibrati tennero in scacco gran parte degli Stati Uniti uccidendo a colpi di fucile degli ignari passanti. I due killer erano tanto più imprendibili quanto agivano in modo apparentemente casuale. Giorno d’oggi. L’intero Nord Est italiano trema all’idea di toccare un oggetto che possa esplodere dopo essere stato manomesso senza un motivo evidente e senza una modalità costante dal notorio Unabomber. In poche righe ecco spiegato quello che dovrebbe essere la teoria attorno al quale E. Elias Merhige costruisce il suo ultimo film, il suspect zero, ovvero l’impossibilità di prevedere le mosse di un assassino che agisca in modo casuale e, di conseguenza, l’estrema difficoltà di anticiparne le mosse.

La chiave per risolvere il mistero, ed elemento di assoluto fascino (al dire di regista / sceneggiatore / produttore) è la capacità dell’ex agente O’Ryan (Ben Kingsley) di attuare tecniche di remote vision, ovvero la facoltà che l’intelletto ha di lasciare il corpo per “vedere” ciò che accade a distanza. E. Elias Merhige è sempre stato affascinato dall’idea della remote viewing e ha pensato che potesse essere l’espediente giusto per raccontare un thriller. L’intenzione era quella di intessere la natura psicologica e quella irrazionale dell’essere umano. In realtà il risultato è quello di apparire come una macedonia di elementi narrativi cine-televisivi a cui lo spettatore medio è ampiamente abituato.

La base narrativa è fornita dall’opposizione, quanto mai canonica, dell’inespressivo agente, ossessionato dal lato paranormale dell’investigazione (Aaron Eckhart) con la collega (Carrie Ann Moss, che dopo MatrixThe matrix, Andy e Larry Wachowski, 1999 – non azzecca una parte), sua controparte razionale nonché ex-fidanzata, nella riproposizione dello schema proposto dall’ormai classico serial Tv X-files. La visione remota, qui nella variante “indotta” anziché che “naturale”, richiamerà alla mente dei appassionati di serial il mezzo flop di Millennium (altro figlio di Chris Carter, papà degli X-files) in cui il protagonista risolveva casi polizieschi per cancellare le terribili visioni che lo tormentavano (derivazione delle capacità che consumavano mente e corpo del protagonista de La zona morta – The dead zone, David Cronenberg, 1983 – a sua volta tratto da un libro di Stephen King…). Per non parlare di quante volte al cinema è stata teorizzata la (im)possibilità di un crimine perfetto (Sir Alfred Hitchcock non me ne voglia).

Nel film non c’è citazionismo, né alla Tarantino, né alla Coen, e neppure questa analisi vuole essere un enciclopedismo utile più per misurare la conoscenza cinefila che per capire un film. È solo un tentativo di dimostrare come la mancanza di idee possa essere mascherata da operazione intellettuale e di dubbio valore. Peccato per la colonna sonora di Clint Mansell (compositore tra gli altri dei film di Darren Aronofsky) che ha scritto musiche atipiche fatte di suoni e antimelodie, capaci di creare atmosfere suggestive, che tanto sarebbero piaciute al Kubrick di Shining (The Shining, 1980).

Curiosità
La sceneggiatura è basata su un racconto scritto da Zak Penn, che qui appare nel ruolo di co-sceneggiatore. Durante le riprese, chi desiderasse conversare con Ben Kingsley doveva avvicinarlo con l’appellativo di Sir, titolo conferitogli a seguito della sua interpretazione da Oscar in Gandhi (id, Richard Attenborough, 1982).

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