hideout

cultura dell'immagine e della parola

C’è del marcio in Danimarca

C'è del marcio in Danimarca

Brothers sono Jannik e Michael, due fratelli della Copenaghen di oggi. Uno (Nikolaj Lie Kaas) sbandato e affascinante, appena uscito di prigione con l’accusa di stupro. L’altro (Ulrich Thomsen) militare di successo, padre borghese di due bambine e marito di una splendida moglie (Connie Nielsen). Dopo la morte in Afghanistan di Michael durante una missione delle Nazioni Unite, Jannik assiste la vedova, con tenerezza e quasi nasce un amore, bloccato sul nascere dall’inaspettato ritorno di Michael, in realtà sopravvissuto alle “guantanamo” afgane ma con un indicibile segreto che corroderà la sua esistenza e quella della sua famiglia.

Sulla scia di Festen e L’eredità (interpretato anch’esso da Ulrich Thomsen, ormai una star in patria), dalla fredda e nobile Danimarca arriva un altro film sui traumi e i conflitti familiari. Brothers, in Italia riproposto con un titolo che suona piuttosto cattolico e che riecheggia l’omonima pellicola del 1988 di Kieslowski Non desiderare la donna d’altri, è un potente dramma a doppia lama di rigore protestante, sui nodi di una famiglia borghese come tante altre e sulla ricca e civile Europa di oggi, dove si annida la bestia della guerra.

“Esserci o non esserci?” (In Iraq s’intende) è il dubbio amletico-politico che giunge secco e logorante dalla macchina da presa di Susanne Bier, e che vede la coalizione reazionaria di governo danese alle prese con le gabbie dell’interventismo antiterroristico.
”C’è del marcio in Danimarca”, sembra di sentire dall’ex patria della socialdemocrazia, dove da anni regna la favoletta del neoliberismo, le cui mosse politiche vengono digerite e riportate puntualmente sul grande schermo dalla vivace cricca Von Trier (di cui la Bier fa ovviamente parte), a differenza dell’inerte (inesistente?) cinema di condanna italiano. C’è una sottotraccia di cinema d’impegno sotto la tipica trama da tragediona greca: il modo in cui essa viene a galla rispetto al livello narrativo principale (il dramma familiare), ha la potenza di mettere a contatto le conseguenze di scelte macropolitiche (l’intervento militare) con le situazioni microsociali e il portato negativo sulle coscienze degli uomini. Brothers, i due fratelli Jannik e Michael, legati da un cordone ombelicale che attraversa oceano, continenti e perfino la morte, incarnano metaforicamente i due estremi del processo, manifestando la loro seconda pelle, nel momento in cui il laccio che li tiene uniti sta per essere mozzato.

Per i “dogmatici” appassionati, il film della Bier sarà un piacevole tuffo nel cinema duro e spietato di Von Trier, con tanto di camera a spalla sulle facce dei bravissimi attori e primissimi piani che diventano veri e propri campi lunghi. La regista, cresciuta a pane e Dogma, insegue l’elaborazione del lutto, del trauma e della guerra affermando la priorità degli affetti e l’armistizio dei sentimenti in uno sfondo lieve, dove affermare la vita sulla morte è l’unica capacità a renderci umani. Un film che evita le facili cadute nel melò e i luoghi comuni sulla guerra. Una pellicola che ci fa male come meritiamo, e che fa riflettere.

Emblematica uno stralcio di dialogo tra una figlia di Michael e sua moglie.

«Ma papà è morto un’altra volta?»
«Mica si può morire un’altra volta»
«E invece si può…»

Non c'è ancora nessun commento.

Lascia un commento!

«

»