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Lo sguardo della rappresentazione

Lo sguardo della rappresentazione

I due occhi del cinema di Matteo Mazza

Dall’alto qualcuno vede e controlla la luce. Che diventa fuoco, morte e disperazione. Nello smarrimento l’occhio rimane vigile, attento scrutatore del futuro e delle infinite insidie celate. La luce diventa un’aurora, forma di nuova vita. La salvezza è un prisma, una luce, delle ombre proiettate.
E’ arduo il compito che deve intraprendere l’occhio dello spettatore di Lemony Snicket – Una serie sfortunata di eventi. Il regista Brad Silberling, infatti, oltre a rappresentare le vicende dei fortunatissimi libri di Daniel Handler, in arte Lemony Snicket, costruisce uno specchio, uno spazio surrealgotico dove la finzione è palcoscenico di immagini, quadri e stimoli visivi mutevoli e dove l’occhio umano è al tempo stesso osservato e osservatore. In questo continuo e infinito gioco di luce riflessa e rifratta, Silberling plasma tutte le sue ossessioni e le comprime in una serie (fortunata) di allucinazioni allegoriche. Un’esperienza visiva a tratti esaltante ma anche inquinata da alcune gratuite virate sentimentali che allontanano dalle più affascinanti atmosfere dark.

La luce è la vita. Il buio è la morte. O forse è un’altra vita. Tutto ha inizio sulle ceneri (di casa Baudelaire), quindi da una fine, dallo scontro con la morte, cioè con la forma fredda della vita terrena. Che schianta l’uomo nella solitudine, nel vuoto. Quel freddo che l’uomo, e soprattutto i bambini percepiscono nel deserto (di relazioni) che popolano.
Dalle tenerezze fantasy di un fantasma in conflitto tra desideri e paure (Casper – id., 1995), al melodramma della scelta e dell’amore (La città degli angeli – City of angels, 1998), fino all’ultima elaborazione del lutto e del sacrificio della vita (Moonlight Mile – id., 2002), il cinema di Silberling non è nuovo nell’affrontare la morte come espressione di “altro”. Un percorso che ha permesso al regista di tradurre in linguaggio un cinema inteso come “apparenza” e “apparizione” di una realtà misteriosa, non percepibile dal senso comune, ma in grado di riscattare l’uomo dalla convenzionalità del mondo, che è brutto e ingannatore come il Conte Olaf (Jim Carrey). Un cinema con due occhi. Uno guarda alla realtà come forma di apparenza e falsa verità. L’altro evoca l’ignoto, luogo misterioso, percepibile solo per illuminazioni, in cui si realizza la sintesi di ogni cosa, profumi, colori, suoni. Oltre l’umano.

In Lemony Snicket il mondo degli adulti si autorifrange / autodistrugge e sembra proporre due modelli. Da una parte gli ingannatori come Olaf, con le maschere, i quadri autocelebrativi e soprattutto con gli occhi illusori che sono oggetto e soggetto. Dall’altra gli ingannati come zia Josephine (Meryl Streep), o zio Monthy (Bill Connolly). Paure e dolori di un universo vecchio, (cor)rotto, angosciato e senza alcuna speranza per i bambini.
La scatola magica è l’unica forma di Salvezza. Un telo che diventa prisma, una lampada che diventa luce, una silhouette che diventa ombra. Un ricordo del passato.

Un colpo d’occhio di Francesca Bertazzoni

Niente confronti con Harry Potter. I libri di Lemony Snicket, o forse Daniel Handler, raccontano le disgrazie dei tre orfanelli Violet, Klaus e Sunny. Handler ha creato un mondo nel quale la voce narrativa è continuamente sentita dal lettore: si spiegano i significati delle parole più difficili, i modi di dire, le differenze tra concetti astratti e concreti. In più, per meritarsi la stima di tutti i genitori che non vorrebbero mai vedere i propri figli turbati da storie di dolore e morte, lo scrittore consiglia a chi apre uno qualsiasi dei suoi libri a richiuderlo immediatamente, così che nessuna sensibilità venga urtata.

In effetti, anche nel film di Silberling viene mantenuta questa buona abitudine: la narrazione filmica ogni tanto si inceppa, anche a causa della vecchia macchina da scrivere usata da Mr. Snicket nel corso del suo lavoro. E non si manca di avvertire che ciò che si vedrà sullo schermo non sarà la storia allegra di un piccolo folletto dei boschi. In realtà, la scena iniziale, davvero spiazzante, con i suoi colori sgargianti e con i pupazzetti di plastilina, risulta più inquietante delle bellissime scenografie che avvolgono la storia dei Baudelaire. Magicamente, ciò che al cinema affascina di più è la palese finzione, la costruzione scenografica più fiabesca e meno realistica possibile. E nel mondo dei libri quasi ci sembra più realistico che la storia dei Baudelaire sia continuamente interrotta dalla voce forte del narratore: sembra di sentire il libro farsi sotto i nostro occhi.

E proprio di occhi, al cinema, si deve parlare. Quegli occhi che ossessionano i tre bambini perché sono il simbolo dell’odioso conte Olaf. Sono gli occhi di un attore, maestro nel travestimento, che riesce a ingannare qualsiasi adulto facendo di sé una rappresentazione del patrigno buono agli occhi degli altri. Talmente camaleontico e astuto da trasformare una recita in palcoscenico in un matrimonio reale, e sotto gli occhi di tutti. Ma i bambini Baudelaire hanno occhi più grandi perché utilizzano quelli dell’immaginazione: sono fotografie e immagini a salvarli, e a far loro scoprire gli inquietanti piani del conte. E dalla rappresentazione al cinema il passo è breve: rinchiusi nella decrepita casa del conte, si rifugiano nella proiezione di immagini, in quei negativi dei volti dei loro genitori scomparsi, che loro proiettano su un telo come se avessero costruito una lanterna magica, primitivo proiettore. E la finestra funesta della paurosa zia Josephine altro non è che un gigantesco mirino, un’inquadratore per meglio mettere a fuoco.

D’altronde, tutti i personaggi positivi del film possedevano un cannocchiale, uno strumento monoculare per osservare meglio da lontano. Mentre il conte Olaf e la sua compagnia teatrale di brutti ceffi posseggono l’arte del camuffamento, dell’inganno oculare. Ma per chi ha strumenti per osservare al meglio gli inganni vengono ridotti in cenere.

Curiosità
Il direttore della fotografia Emmanuel Lubezki e lo scenografo Rick Henirichs avevano lavorato anche per Il mistero di Sleepy Hollow (The secret of Sleepy Hollow, Tim Burton, 1999). A loro il merito di aver combinato sfondi dipinti a finte prospettive, in modo che tutto il set sembri fondersi con lo sfondo.

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