Note sviste di produzione
“Diffidare degli sconosciuti” è un saggio vecchio consiglio, da tenere sempre bene a mente. Triste doverlo ricordare, ma “oggi non c’è più da fidarsi di nessuno”. Questa ultima invece è una regola generale valida in ogni tempo e un problema di sempre del cinema. Nomi troppo noti, usati come esche, non sono garanzia di qualità, ma film-trappola prodotti ad hoc, spesso made in Usa, appositamente “nascosti nel buio” per adescare e confondere lo spettatore sprovveduto.
Un elegante incipit maschera l’inevitabile degenero in cui sfocia la storia raccontata. Le prime immagini ritraggono il cielo; improvvisamente le sue nuvole iniziano a girare vorticosamente sullo schermo, sempre più veloci. In dettaglio vediamo intensi e profondi occhi azzurri, poi una mano piccola con un guanto verde che stringe forte un palo sottile di ferro. Il punto di vista più ampio dell’inquadratura successiva rivela che la precedente era una soggettiva. La bambina è distesa su di una giostra, la mamma la fa girare, lei si tiene forte con la mano per non cadere, mentre il cielo sembra generare un vortice che la risucchia, i suoi occhi mostrano uno sguardo metaforico, premonitore. Il finale invece risulta poco sorprendente, nonostante il tentativo di animare l’azione con scene violente, assolutamente non d’effetto.
Una accettabile regia non basta a sorreggere una sceneggiatura scadente. Polson sorprende a tratti, di-mostra la sua abilità in poche valide sequenze, come rivelano alcuni raffinati tocchi. Nel complesso questi “sprazzi di autorialità” risultano conoscenze basilari, sembrano reminiscenze scolastiche di “mestieranti” al servizio delle majors, impiegati in furbe produzioni che costano relativamente poco tempo e denaro, considerato quanto incassano poi al box-office. Come un castello di sabbia, la costruzione non può reggere, crolla al soffio di una qualsiasi possibile o ulteriore facile critica, perché il problema di questo film è l’essere scritto male. Questa produzione ha fondamenta poco solide, basate su premesse ormai scontate. Si avvale di troppi luoghi comuni cinematografici, di miti già raccontati, basta pensare ai disegni della piccola Emily, utilizzati da anni nel cinema, come nella psicologia. Il tutto, già visto e rivisto, echeggia come un abuso di rivisitazione. Diviene difficile, dunque, credere e apprezzare una storia che dedica la preziosa ultima inquadratura al disegno di una bambina. Il film spreca così il potenziale espressivo del finale, i suoi autori ricorrono all’artificio di un disegno, non sapendo come risolvere il complesso intreccio creato nella trama. In post-produzione il film si vede co-stretto a un montaggio che risulta forzato dall’abuso di troppi flashback e di altre distorsioni temporali e narrative.
Si cerca di rappresentare forzatamente il tema del doppio; il compito di interpretare il problematico motivo dello sdoppiamento di personalità è affidato a simboli iconici: già nelle didascalie dei titoli di testa si introduce il tema con l’effetto grafico dello sdoppiamento dei nomi. L’ingrato dovere è scaricato come una pesante responsabilità sugli stessi, maldestramente utilizzati, divengono espressione visiva dello squilibrio mentale dei protagonisti. Questi minimi dettagli spiegano tutto, appena percettibili sin dall’inizio, dicono forse anche troppo.
La critica si ritrova a narrare dell’ennesima produzione all’americana. “Volevo scrivere un film che facesse davvero paura – dice lo sceneggiatore esordiente Ari Schlossberg – Sono cresciuto a New York e i boschi mi hanno sempre messo una gran paura. Perciò immagino fosse logico per me ambientare la mia storia in una cittadina ai margini di una foresta”.
Si dice che per vivere appieno le sue paure, Schlossberg abbia scritto il copione per lo più di notte, al buio, interpretando di volta in volta tutti i ruoli. “Sono state le voci dei personaggi a dirmi come far procedere la storia”, confessa lui stesso.
Ecco (s)velato il segreto per vincere la battaglia del botteghino sul fronte americano. Le classifiche di fine gennaio lo davano vincitore d’incassi su avversari del calibro di Clint Eastwood. Dato il risultato finale prodotto, non credo personalmente, seppur con tutta la buona fede, ai colossali sforzi di un diligente sceneggiatore esordiente.
Accade quindi che, al secondo tentativo, venga concessa a John Polson (debuttante a Hollywood nel 2002 con Swimfan, distribuito sempre dalla 20th Century Fox) la magnanime possibilità di dirigere il grande Robert De Niro. Fa quasi rabbia vederlo invecchiare, sprecato su questi set, sempre in grado di calarsi nei panni di ogni personaggio, di interpretare qualsiasi tipologia di ruolo. La generosa opportunità è quella di far lavorare le nuove leve con grandi star che, giunte nella fase calante della loro carriera, utilizzate come “fenomeni da botteghino”, sono l’asso nella manica attorno a cui la produzione costruisce il suo gioco sporco. Come stelle comete risplendono tristi nelle loro ultime apparizioni sul grande schermo, prima che la scia lasciata dietro di sè si dissolva in una fiammata. E intanto eroi cinematografici, trasposti nella quotidianità televisiva, sono sempre più richiesti e ben pagati come attori di spot pubblicitari.
Quando scorrono i titoli di coda, il finale spiega solo perché tutto sia stato possibile. Psicologi, bambini, violenza, traumi, follia omicida, gelosia, tanto sangue e pochi contenuti sono solo alcuni degli ingredienti, mescolati in modo macabro e assemblati alla meglio. Semplice fare un film in questo modo, facile creare un pasticcio che divaga tra i generi. In preda a evidenti smanie di grandezza, il racconto brancola nel buio, perdendosi alla fine in una crisi d’identità tra il thriller psicologico, un dramma sociale e/o un horror di pessimo gusto.
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