Il genocidio che l’Occidente non volle vedere
L’intervento militare massiccio che si è verificato negli ultimi anni tra Afganistan e Iraq non è solo frutto del buon cuore di noi ricchi occidentali, interessati allo sviluppo socio-culturale di popolazioni oppresse da regimi sanguinari e oppressivi, è semmai calcolato e spartito a tavolino dagli economisti di alcune (poche) nazioni che in questi paesi sottosviluppati vedono grandi potenziali di investimento. Ricostruzione, la parola che viene spesso utilizzata per giustificare una previsione di sfruttamento delle risorse offerte dalle terre, prima rase al suolo e poi ricostruite mattone su mattone secondo i criteri che l’economia mondiale detta. La forbice che separa i ricchi dai poveri dilata così sempre più le sue lame, allontanando chi conta da chi non conta nulla e anche la memoria storica che le belle parole dei media vorrebbe continuamente rafforzare non serve a salvare la vita di milioni di persone.
Così un remoto angolo del villaggio globale, il Rwanda, terra povera senza petrolio né giacimenti di oro o diamanti, è stato testimone di uno dei più atroci scontri etnici che la storia mediatica abbia (solo parzialmente) riportato, senza risvegliare le coscienze di alcun capo di stato influente, in quanto il ritorno economico da un intervento massiccio non sarebbe stato sufficiente da giustificare la spesa per l’invio del contingente di pace. Lasciate che quei selvaggi si ammazzino a colpi di machete, deve aver pensato qualcuno seduto sulla sua comoda poltrona di pelle. Qualcuno che ora, anche grazie a questo film, dovrebbe vergognarsi delle sue scelte.
«Ho scelto la storia di Paul per raccontare un evento politico, per mostrarlo da un punto di vista interno in modo che il pubblico potesse vedere attraverso gli occhi di chi veramente ha vissuto questa tragedia» dice il regista Terry George, non nuovo a forti battaglie socio-politiche attraverso il suo cinema (la regia di Una scelta d’amore – Some Mother’s Son, 1996 e le sceneggiature di Nel nome del padre – In the Name of the Father, Jim Sheridan, 1993 – e The Boxer – id., Jim Sheridan, 1997), «volevo che l’Occidente provasse vergogna per il suo disinteresse».
La storia di Paul ricorda in parte quella di Oskar Schindler. Come il tedesco, Paul usò le sue capacità, le sue amicizie e la sua influenza per salvare oltre 1200 persone da una morte atroce. Abbandonato da tutti, Paul trovò il coraggio, attraverso l’amore per la sua famiglia, di superare ogni disgrazia, nella consapevolezza che non avrebbe potuto fare abbastanza per arginare un disastro da oltre un milione di morti.
Il film è duro e la vicenda narrata è paragonabile, a memoria d’uomo, solo all’Olocausto nazista, ma la violenza più cruda, per scelta del regista, non viene mostrata. Il film crea così una sorta di suspance emotiva, proprio legata all’impossibilita di mostrare/vedere le atrocità ma di percepirle attraverso i suoni, le grida e lo sguardo attonito dei testimoni. Questa scelta è però importante in modo da non far incorrere nella censura il film che vietandolo ad un pubblico di minori avrebbe impossibilitato di far raggiungere il suo disperato grido di pace a molti uomini di domani.
Da vedere per conoscere, capire, riflettere e non ripetere gli stessi errori.
A cura di Carlo Prevosti
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