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I suoni di stagioni in attesa… in corso… passate

I suoni di stagioni in attesa… in corso… passate

In galassie remote dell’Universo talvolta capita che fuggitive comete si avvicinino al nostro pianeta, sfiorandolo – ma non raggiungendolo mai. Il raffinato Pupi Avati si favorisce, come punteggiature di un significato che va al di là della loro mera rappresentazione, di tali inserti astronomici per ricordarci come oltre alle nostre storie umane – quelle che animano i nostri passi e su questa terra si dipanano caotiche – altre Storie in un altrove sconosciuto dominano palcoscenici immensi e imperscrutabili.
Eppure proprio come quegli astri maratoneti, incapaci di arrivare alla meta, ci muoviamo noi – stelle più piccole, guidati dai fari dei nostri talenti – che corriamo incontro alla realizzazione del nostro desiderio afferrandolo o sfiorandolo solamente.
E accorgendoci, in questo secondo caso, di morire un po’ nell’eterno istante in cui vediamo quell’illusione dissolversi, come polvere della propria luce.

Gianca (Paolo Briguglia), pur essendo un abile suonatore di sax, vive proprio quest’esperienza: è come dice lo stesso regista, un “soccombente”. La sua bravura, la sua preparazione lo conducono a inseguire il sogno di diventare un maestro del suo strumento, di vendicare così il destino del padre che, musicista come lui, anni prima aveva coltivato la medesima aspirazione senza avere fortuna. Un padre (interpretato da un convincente Johnny Dorelli) che, sebbene economicamente stabile, manifesta apertamente un perpetuo malessere esistenziale dovuto non solo al fallimento della sua ambizione, ma all’ineluttabilità del tempo e delle sue stagioni perse. Le stagioni ingenue in cui ci si domanda quando finalmente le ragazze si presenteranno a noi – in un branco immaginario – per condurci inebriati d’amore tra le loro braccia.
Le stagioni amare in cui ci rendiamo conto che non ci sono più dolci attese e anche quelle ragazze sono fuggite, in altri tempi e spazi.
Gianca e il padre sono ingranaggi dello stesso ciclo meccanico – controfigure eterne di un sistema oscuro come la notte sconfinata in cui si perdono le comete.
Sull’altro versante Nick (nel cui ruolo Claudio Santamaria si conferma una promessa mantenuta del nostro cinema), sebbene non preparato musicalmente, ha tra le dita un meccanismo d’amore e ribellione, e con la mente rivolta al mito di Clifford Brown, incomincia a suonare la tromba fino a rivelare, in un istante improvviso, proprio come quello in cui arrivano d’incantesimo le ragazze, il suo meraviglioso talento.

Al di là di questo consueto aspetto “magico” di cui si serve Pupi Avati per le sue storie – si pensi all’incantesimo della gita di cui sono testimoni i giovani liceali in Una gita scolastica (1983) o all’incontro mistico del professor Marcorè con la musa Ovidiana Incontrada in Il cuore altrove (2003) – non manca il tema dell’amicizia, perno delle nostre esistenze e, sebbene sempre precario, atto inevitabile per la sopravvivenza.
In tutti i sensi questa sua ennesima opera non dispiace affatto: è un lavoro squisitamente personale, privo di retorica e di mieloso auto-compiacimento, sincero ma anche disilluso come l’amaro sorriso del padre di Gianca quando gli racconta la sua iniziazione alla vita. Un’opera che ci ricorda come vaghiamo, in gioventù e nel resto di tutta la vita, alla ricerca di un’identità. Un’opera che, proprio per questo, ci invita a ricordarci chi siamo, chi eravamo e chi saremmo potuti essere.

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