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In famiglia, senza famiglia

In famiglia, senza famiglia

L’esuberante Hana non è solo dolce e materna: è anche cinefila, e sembra amare alcuni classici hollywoodiani, di cui dice apertamente il titolo: Arriva John Doe (Meet John Doe, Frank Capra, 1941) e Tutti insieme appassionatamente (The sound of music, Robert Wise, 1967). Liberamente basato su In nome di Dio (3 Godfathers, 1948) di John Ford, Tokyo Godfathers lascia però affiorare anche una matrice cinematografica più contemporanea, di stampo almodovariano, più precisamente ricordando Tutto su mia madre (Todo sobre mi madre, 1999).
Partiamo proprio da Hana, il travestito, certo il personaggio più riuscito e divertente di tutto il film. La si associa immediatamente ad Agrado, così come simili sono gli ambienti in cui le due donne (decidiamo che appartengono al genere femminile!) ci conducono: prostituzione, night club e locali popolati da vere e proprie famiglie di transessuali. E in entrambi i film il tema è trattato senza malinconie né pregiudizi. L’atmosfera è anzi immersa di calore giocoso.

Il materno e il femminile sono le tematiche che reggono il film. Hana, uomo diventato donna per scelta, incarna il prevalere del femminile sul maschile. Il desiderio di maternità è il motore della storia e, di conseguenza, l’unico fine che può sancirne il termine: solo quando Kiyoko sarà tornata nelle braccia della sua vera madre la banda di senzatetto potrà finalmente veder conclusa la propria vicenda.

Tokyo Godfathers è, come Tutto su mia madre, una storia di famiglie sgretolate e ricomposte, una continua scissione di un’unità in due parti, che si cercano e si riuniscono. Hana, Jin e Miyuki hanno tutti una famiglia (la famiglia dei travestiti di Hana non è biologica, ma affettiva) da cui si sono separati e che, in un modo o nell’altro, si ricomporrà nel corso del film. Durante il proprio cammino troveranno altre famiglie scisse o in via di formazione: il matrimonio dei pupilli del boss, in perfetto stile mafioso, la coppia di sposi che non riescono ad avere bambini. Sono le donne (dopo il Fato) a condurre le sorti di questo continuo perdersi e ritrovarsi: le donne decidono di lasciare (come Miyuki) e le donne decidono di perdonare e ricongiungere, come la figlia di Jin. Il femminile è dispensatore di unione e di scissione (ma più del primo che del secondo).
Almodovariano è anche il gioco di coincidenze che determinano il plot, forse qui oscillante un po’ troppo verso l’improbabile, ma efficace nel trasmettere un’atmosfera burlescamente positiva. Come i titoli di coda, in cui i grattacieli di Tokyo danzano al ritmo di un Inno alla gioia in versione reggae e cantato in giapponese. Allegro con kitsch.

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