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Il grande cielo nella caverna oscura del cinema

Il grande cielo nella caverna oscura del cinema

Un taxista che invoca la redenzione universale nel suo calvario di “everyman”, un campione di boxe che diventa beffa di se stesso cadendo in rovina, un avido gangster che retrocede nella “categoria” di uomo normale, un direttore di casinò manipolato dalla sua stessa fortuna… sono solo alcuni stereotipi della realtà dell’America sconfitta che Martin Scorsese con la sua maestria raffigurativa ha consegnato irremovibili al falsario dei nostri ricordi.
Con The Aviator si ha, però, l’impressione che il regista abbia (volutamente?) violato i codici della sua e(ste)tica, usualmente pregna di un cristianesimo rivisitato materialmente e per questo privo di ascendenze catartiche e ottimiste, ma che al contrario lascia spazio a un vuoto e asciutto pietismo che sa di muto abbandono irreparabile, di abiezione incontrastabile in cui il peccato è la vera fede da vivere.

Howard Hughes, pur vivendo le stesse contraddizioni degli stereotipi scorsesiani – nella sua lussuria e carnalità imperante accompagnate da un’infetta avidità anche superiore a quella dei personaggi già citati – pur eternamente sconfitto dalla sua incapacità di guarire la devianza permanente che c’è in lui, viene avvolto da un registro “elogiativo” (che culmina nel trionfalismo delle scene finali) – quasi mitologico – (basti pensare le cavalcate del protagonista nei cieli) che disorienta per una valutazione umana certamente discutibile.
In tal senso Orson Welles, nella situazione analoga di Quarto Potere (Citizen Kane,Orson Welles, 1941)aveva calcato maggiormente l’efferatezza del suo tono.
Al di là di tale ambiguità, va comunque sottolineato che l’opera, nella sua estensione di quasi tre ore, è di pregevolissima fattura con movimenti di macchina sontuosi e coinvolgenti, con una fotografia che ben contraddistingue le luci e le ombre del personaggio (dai flash abbaglianti della ribalta della mondanità alle ombre dell’isolamento e della schizofrenia) e con una saggia scelta dei punti di vista (dal basso, la maggior parte) che segnalano costantemente il dominio che il protagonista ritiene di avere sugli altri.
Ma soprattutto con un protagonista, Leonardo Di Caprio, che – senza eccessivi e facili camuffamenti – offre una performance splendida e prestigiosa.
Tuttavia, tramite la rappresentazione biografica di Howard Hughes, Scorsese sembra, da maestro qual è, illustrarci qualcosa che va al di là di una mera agiografia cinematografica.
Qualcosa che è direttamente cinema.

La camera oscura fuori-dentro l’immensità
Se lo spazio sconfinato del cielo prefigge la conquista, l’ambizione di un’immensità da raggiungere con la velocità e la bellezza dei propri (nuovi) corpi metallici – lo spazio della sala dove Hughes e i suoi collaboratori ri-guardano le scene e le correggono fino ad una presunta perfezione (che non sarà mai tale), lo stesso spazio oscuro dove solo il pulviscolo rarefatto dello spettro del proiettore penetra prefigura il luogo in cui quell’immensità viene drasticamente ridimensionata – tagliata e montata dallo stesso cinema e dallo stesso regista – miniaturizzandosi in quel fascio di luce nell’ombra della sala. Nell’ombra della mente di Hughes.
Difatti sarà quella stessa sala, successivamente, il luogo eletto dal magnate per isolarsi dal mondo – rappresentandosi come camera della propria interiorità – e dove vedremo l’uomo nella sua nudità integrale, diventare schermo e vestirsi come d’incanto solo delle immagini che egli stesso ha creato o ha amato – le immagini del suo illimitato essere – e in quel nuovo abito che lo rende “l’immagine pura del cinema” –quindi essenza, verità assoluta – trafiggersi del male psichico che lo attanaglia – trafiggersi proprio perché cosciente della misura finita di sé stesso – della falsità di quell’illimitatezza agognata di cui un minuscolo pulviscolo svela l’inganno, stagliandosi contro l’immensità delle nuvole.

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