Incontro di civiltà
Dopo gli splendidi My name is Joe (id., 1998) e Sweet Sixteen (id., 2002), il sempre giovane e arrabbiato Ken Loach ritorna a Glasgow e a collaborare con lo sceneggiatore Paul Laverty per chiudere una vera e propria trilogia scozzese. Ma stavolta, abbandonando le difficoltà del sottoproletariato (che sia adulto e maturo o poco più che adolescente, come nei precedenti episodi) e scegliendo di raccontare la travagliata vicenda di una coppia interreligiosa (lei cattolica-irlandese, lui musulmano-pakistano), non tutto riesce al meglio. Sarà che Ken il rosso ci ha abituati a un cinema che scende a scandagliare con la macchina da presa ad altezza uomo le strade meno battute di conflitti sociali ed esistenziali della società contemporanea, e che quindi spiazza non poco vederlo alle prese con il classico “boy meets girl” da primi Beatles, ma rimane il fatto che l’operazione risulta abbastanza prevedibile e incolore, se non addirittura scontata e inferiore se paragonata ad altre (cinematografiche e non) che negli ultimi anni hanno scelto di confrontarsi con lo stesso tema: dal più spumeggiante East is East alla profondità dell’elaborazione letteraria di Hanif Kureishi.
Il punto debole è proprio la trama: la storia d’amore di Casim e Roisin, lui dee-Jay con il sogno di un locale tutto suo, lei brillante professoressa di musica in un liceo, si segue senza nessuna fatica, dal primo incontro fortuito fino al bacio finale (ebbene sì, c’è pure quello!), passando per l’immancabile litigata poiché lui non ha detto a lei che è già promesso sposo a una cugina, secondo tradizione pakistana. Tutto scorre via liscio, ma anche senza nessuna sorpresa o grande emozione. E anche la morale finale, essere se stessi anche contro i pregiudizi o imposizioni sociali (ribadito dalla sorella di Casim già nel bell’incipit), non appare così originale. Tutto un po’ grigio pallido.
E per un regista che ci ha abituati ai rossi più accesi non è un gran risultato.
Intendiamoci, il cinema di Ken Loach rimane tra i pochi rimasti a poter essere degno figlio ed erede della grande lezione prima morale e poi estetica del Free Cinema britannico e più in generale della grande stagione di rinnovamento globale del nuovo cinema degli anni ’60. Anche in questo caso si ritrova a credere e fare un cinema per raccontare il nostro tempo (cosa c’è di più attuale dello “scontro di civiltà” di cui Casim e Roisin sono loro malgrado emblematici?) e la forma semplice e rigorosa con cui è in grado di affrontare i temi più scottanti (attori non professionisti, pochissima musica e quasi sempre diegetica, fotografia il più possibile realistica). Insomma non si mette in discussione lo sguardo morale, prima che cinematografico, dell’autore di Terra e libertà (Land and Freedom, 1995), né la sincerità (qualità rara e preziosa oltre che di per sé sufficiente per contraddistinguere positivamente un film e non solo) o l’impegno che caratterizzano l’intera sua carriera e che non vengono meno neanche in questo caso. Forse anche l’eccessivo volere essere equidistanti tra le due religioni, più che a lucidità e oggettività, conduce a schematismo e didascalismo facile e superficiale: così al rigido e retrivo (agli occhi occidentali) comportamento dei genitori di Casim per cui il matrimonio si fissa e organizza come una transizione economica, corrisponde con precisione matematica l’arrogante bigottismo fanatico del parroco cattolico. Siamo al solito (grande?) amore contrastato (dai genitori, dai diversi usi e costumi, dalla società, dalla religione) e, implacabile, scatta il già visto. Senza scomodare Romeo e Giulietta.
Orson Welles diceva che due sono le cose che è impossibile riportare sullo schermo: le scene di preghiera e quelle di sesso esplicito. Qua Loach, si limita alle seconde. E, un po’ colpiti dalla banalità con cui le filma (i soliti gemiti di lei in primo piano, addirittura con specchio), lo ringraziamo di averci risparmiato pure le prime (che, visto l’argomento, ci potevano pure stare).
Un mezzo passo falso. Ma, in una lunga carriera e una maestria conquistata sul campo come nel caso di Ken Loach, noi senza problemi o pregiudizi aspettiamo il prossimo film. E, anche ricordando come a un capolavoro come My name is Joe (id., 1998), siano seguiti i debolissimi Bread and Roses (id., 2000) e Paul, Mick e gli altri (The Navigators, 2001) per ritornare grande con Sweet Sixteen (id., 2002), forse la carriera di Loach è una di quelle caratterizzate da alta frequenza e vitali scosse di assestamento.
Curiosità
Il film è stato presentato alla 54a edizione del Festival di Berlino, dove ha vinto il premio della Giuria Ecumenica.
Ae Fond Kiss, titolo originale del film, è il verso di una canzone del poeta scozzese Robert Burns che scandisce l’intera vicenda: segna il primo incontro dei due protagonisti (dove è cantata da un’allieva di Roisin, mentre lei l’accompagna al pianoforte) e ritorna nel momento di crisi massima della coppia.
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