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Corti Estranei – Intervista a Marco Pozzi

Marco PozziMarco Pozzi (Varese, 1964), laureato alla Cattolica di Milano, diplomato nel 1992 alla scuola Ipotesi Cinema di Bassano del Grappa, dal ’96 lavora come regista di spot pubblicitari e documentari industriali. Fra i suoi lavori più importanti: Doom (cortometraggio, 1996), presentato alla Mostra Internazionale d’arte Cinematografica di Venezia, Venti (1999), presentato al Festival di Berlino e vincitore del Premio Duel, Senza Tregua (2003), presentato alla Mostra Internazionale d’arte Cinematografica di Venezia.

Come hai trovato la qualità dei corti in gara?

Buona, io sono stato in giuria parecchie volte nell’ultimo anno e devo dire che la qualità media è molto più alta di quello che mi aspettassi. Poi la cosa più interessante è che sono tutti corti provenienti dall’area milanese, per cui è ancora più sorprendente.

Come consideri il panorama cinematografico emergente milanese? Quanto questa situazione ne rispecchia una più generale?

Questa situazione rispecchia una grande vivacità, per cui spero sia il sintomo di una voglia di ricominciare a pensare, fare e programmare cinema “altro” in questa città, cosa che è da molto che no si fa. Sono talmente pochi i registi che vivono di questo mestiere, o che comunque hanno fatto e provano a fare cinema con tutte le difficoltà che ci sono, che vedere tutti questi ragazzi con le loro speranze e i loro sogni ti mette solo di buon umore, nonostante la situazione generale in Italia, in questo momento, sia drammatica. E a Milano lo è ancora di più, per cui tutto questo è incredibilmente positivo. Sono arrivato con tutta una serie di problemi miei, ma al quarto corto mi ero completamente distaccato da tutto, cosa che mi capita raramente al cinema. Quindi tutto molto bello, grazie…

Quali altre iniziative di questo tipo conosci a Milano?

Non conosco nello specifico la realtà milanese, mi è capitato soprattutto di essere in giuria nel resto d’Italia e all’estero. A Milano mi viene in mente Filmaker, che però è organizzata in maniera completamente diversa. Poi c’è Invideo che però è orientata maggiormente verso la video-arte. Poi ci sono i due festival: il Milano Film Festival e il Milano International Film Festival che in qualche modo dedicano spazio, soprattutto il primo, ai cortometraggi. Però una ricognizione sull’area milanese è raro che venga fatta, e questo è un grande merito di Corti Estranei. Forse concentrarla in due serate diventa un po’ troppo impegnativo anche per il pubblico. Si potrebbero fare tre serate e diluire quindi la visione. Sarebbe bello poi riuscire a far proiettare una selezione di questi corti in alcune sale capienti milanesi, come l’Anteo e il Mexico.

Vista la tua esperienza su tutto il territorio nazionale, che differenza hai trovato tra Milano e le altre città rispetto a progetti di questo tipo?

Non mi è mai capito di assistere ad un festival che fosse una vera e propria ricognizione sui lavori del luogo, e ripeto, questa è una cosa veramente interessante. Parlando di differenze, devo ammettere che ho avuto parecchie esperienze in giurie sconcertanti per quanto riguarda la qualità dei corti. Anche qui, per quello visto finora, la fiction mi sembra mediamente più debole. Mi sembrano più forti e più d’impatto altri tipi di lavoro. Si fa molta fatica a fare della fiction che sia sensata, costruita e strutturata in modo vincente. Però questo, secondo me, è un problema generale dei cortometraggi dalla fine degli anni Novanta in poi, cioè da quando la mia generazione ha smesso di farne. Infatti oggi i corti italiani fanno molto fatico ad andare all’estero e a vincere premi, cosa che invece era accaduta con la mia generazione. Io, Puglielli, la Torre abbiamo fatto dei lavori che sono stati a Venezia e in giro per il mondo vincendo premi e dando prestigio alla produzione di cortometraggi italiani. Questo era possibile poiché era un periodo in cui si riusciva a convogliare delle energie, anche economiche e produttive, sui cortometraggi e si pensava a dei progetti che fossero di squadra, dove c’era un regista che era un playmaker di una squadra e faceva giocare i suoi uomini. Ed è quello che ho fatto io personalmente: ovvero crescere insieme a un team di collaboratori. Quello che vedo adesso invece è una maggior democratizzazione dell’accesso al mezzo grazie al digitale, per cui molti girano e montano soli. Questo ha aspetti positivi, ma c’è il rischio dell’autoreferenzialità e dell’autismo.

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