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Sotto la cerniera niente

Sotto la cerniera niente

Closer di Mike Nichols (Chi ha paura di Virginia Woolf?, 1966; Il laureato, 1967; A proposito di Henry, 1991; Angels in America, 2003) è un film che si apre a cerniera, che si sdoppia, giocando sapientemente con il fuori-dentro campo. Nella costruzione narrativa il regista condensa in coppie logiche di sequenze il necessario per vedere, senza toccare, ciò che sullo schermo non succede mai. Dialoghi e didascalie dettagliate che descrivono scopate, fellatio e prestazioni taurine, eppure là in mezzo, dove la cerniera è appena passata, lasciando tutti con l’acquolina in bocca, la macchina da presa serra l’otturatore, distogliendo lo sguardo da nudi e scene di sesso (ahinoi!).

Sono le pareti vibranti ed erogene del desiderio, negli sgabuzzini neanche troppo reconditi del cervello, a vedersi spuntare fuori un paio di occhi telescopici da voyeur. Perché Closer è due film in uno, come due sono i volti dei suoi protagonisti: una chicca psico-hardcore, interpretata da alcune delle più incendiarie sexybomb di Hollywood, un ruvidissimo porno mai visto; e una pièce teatrale (il film è tratto da un dramma teatrale di Patrick Marber, anche sceneggiatore di Closer) che gioca sul rapporto di coppia e su dialoghi al tabasco misto spazzatura.

Costruita su queste basi, la pellicola sembra una metafora del funzionamento del ricordo umano in fatto di relazioni amorose: tendiamo a ricordare solo inizio e fine di un rapporto concluso, senza mai pensare al “durante”. Nichols scorre la lampo sul carnevale umano del tradimento e della menzogna, del narcisismo e del compromesso, lasciando solo a incipit e chiusa del film, sprazzi di poesia.
Le due sequenze si dilatano nel tempo, sono molto simili tra loro, si guardano in faccia l’un l’altra, eppure sono totalmente diverse. Forse a sottolineare ancora una volta l’importanza di non soffermarsi ai soli punti di distacco dalla vita di rapporto, ma a rivedere gli ingredienti che hanno dato colore e gusto al passaggio da una fase all’altra.

Scegliere se considerare se stessi come semplici atomi senza storia e legami, o come catene di molecole informi, persone dalla psicologia oscillante che si interrogano, si logorano e si giudicano nell’inevitabilità delle passioni. Allo stesso modo pensare come sarebbero quelle due sequenze (passeggiata iniziale e finale) senza il film in mezzo, senza gli incontri tra Dan e Anna, Larry e Alice e le sintesi amorose aggrovigliate che sarebbero nate. Certo apprezzeremmo le inquadrature dilatate nel tempo su Natalie Portman (Léon, Luc Besson, 1994; Heat Michael Mann, 1995; Star Wars – Episodio II, George Lucas, 2002; The Garden State, Zach Braff, 2004) che passeggia per Londra, semplicemente per quello schianto di donna (e grande attrice) che è diventata, ma sicuramente ci sfuggirebbe il suo nuovo sguardo, non più malizioso, non più incorniciato dal sorriso della vecchia Alice, ma sfuggente, quello di un’altra ragazza, un’altra persona.
Il cinema di Nichols riesce a intervenire sul teatro e lo trasforma in magia con i più semplici ferri del mestiere: un primissimo piano sul volto in lacrime di Alice, rallentamenti, salti, tagli sul tempo e sul campo. Tutto al servizio dell’ambiguità.

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