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Quando “quello grosso” ha paura

Quando “quello grosso” ha paura

A quasi dieci anni dall’esplicito «J’accuse!» rivolto ai potenti della società americana attraverso il provocatorio Roger & Me (Roger & Me,1989), Michael Moore ritorna alla ribalta con un documentario che svela al mondo intero lo sfruttamento del lavoro, minorile e non, da parte delle multinazionali americane. E, esattamente come dieci anni prima, torna a colpire il pubblico.
Chiaramente sovrappeso, giubbotto sempre aperto, camicia a quadri, occhiali e cappellino da supporter, Moore sale in cattedra e parla alle studentesche delle università americane, espone alla radio la sua proposta per sostituire l’inno nazionale statunitense con la travolgente We will rock you dei Queen, sfida i servizi di sicurezza delle principali corporation americane e, mai soddisfatto, si prende la libertà di tenere la videocamera accesa anche dove è espressamente proibito.
Il ritmo è incalzante. La colonna sonora rock e il montaggio serrato accompagnano i protagonisti di questa avventura, quasi tutta on the road, attraverso le più svariate realtà americane: Moore fa tappa nelle grandi metropoli e nelle piccole città di provincia, diversissime tra loro, riuscendo però sempre a focalizzare l’attenzione su quello che diventerà l’asse portante di tutto il documentario, uno schema che si ripete con sconcertanti somiglianze su scala nazionale: ci viene mostrato un mondo di persone sfruttate che chiedono lavoro e giustizia, mentre i potenti di turno (corporation, majors o governatori), che non possono o non vogliono ascoltare, quando non si barricano dietro agli imbarazzanti «no comment», esibiscono tutta la loro diplomazia nell’inquietante frase di circostanza «We must be competitive» («Noi dobbiamo restare competitivi»).
In Roger & Me la camera di Moore spesso si fermò con occhio compassionevole, a tratti malinconico, sull’impossibilità di uscire dal serio dramma sociale della disoccupazione e sul gelido silenzio che si stava chiudendo sulla comunità di Flint: ne uscì un messaggio molto onesto accorato, ma che purtroppo non raggiunse gli alti vertici della GM, dal momento che Moore non riuscì a incontrare il presidente della General Motors Roger Smith.
In The Big One la musica cambia. Lo stesso Moore mostra una grande capacità di dominare il mezzo dell’audiovisivo, complice la sua recente esperienza televisiva, dosando a perfezione le pause e i momenti di maggiore incisività, alternando verità shockanti a trovate divertenti; le sue irruzioni a sorpresa e l’immancabile faccia tosta piacciono molto al pubblico cui Moore si rivolge, aumentano la popolarità dell’azione della controinformazione e, un poco alla volta, danno i loro frutti: in breve tempo il tour di Downsize this assume le fattezze di una vera e propria campagna pubblicitaria su tutto il territorio nazionale, trasformando le poche tappe previste in quasi cinquanta eventi dal forte richiamo mediatico, che sfociano nel memorabile doppio incontro di Moore con Phil Knight, proprietario del colosso Nike.
The Big One consente a Moore di segnare una svolta importante nel panorama del genere del documentario e si può considerarlo senza ombra di dubbio il lavoro che gli spalancò la porta della popolarità. Sebbene, ovviamente, non sia riuscito a ribaltare un sistema basato sullo sfruttamento del lavoro, Moore dimostra comunque che le “minacce alla cieca di un americano disarmato” (sottotitolo del suo libro) ma “armato della sola videocamera” (aggiungiamo noi) possono far cambiare qualcosa e portare lontano la voce di chi troppo spesso viene dimenticato.

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