Taxi: i topoi cinematografici
Déjà vu
Una donna, occhiali scuri, impermeabile e acconciatura troppo regolare per essere vera sale sul taxi esclamando: “Insegua quella macchina!”. Il tassista, di cui facciamo in tempo a cogliere solo la sagoma di schiena, è un anonimo personaggio che esegue l’ordine ed ha assolto al suo compito, non lo vedremo mai più apparire nel film e non ci è dato sapere niente dei suoi pensieri sulla richiesta paradossale che gli è stata fatta. Al cinema ci è frequentemente capitato di imbatterci in scene del genere, è una situazione talmente stereotipata che persino per i tassisti costituisce una specie di “mito”… L’intraprendente tassista di Donne sull’orlo di una crisi di nervi (Mujeres al borde de un ataque de nervios, P. Almodovar, 1988), ricevuta una richiesta del genere dalla propria cliente risponde : “E’ una vita che aspettavo che qualcuno me lo chiedesse!”.
Non illudiamoci, però, che il taxi al cinema porti sempre un personaggio a destinazione, tutt’altro. Se quando sale sul taxi un personaggio si sente al sicuro, il tassista potrebbe voltarsi e rivelare una faccia nemica e per niente rassicurante. A quel punto il personaggio si sentirà in pericolo e comincerà ad urlare mentre si rende conto che il taxi è una trappola e alle sue urla si sovrapporrà la risata malefica del bad guy di turno o si opporrà uno spietato ed ostinato silenzio. Il taxi si trasforma allora, come in Il collezionista di ossa (The bone collector, P. Noyce, 1999), in traghetto per l’inferno.
A disposizione del racconto
Il taxi, però, non è soltanto un mezzo grazie al quale i personaggi dei film raggiungono un luogo (bello o brutto che sia), è anche un luogo dove le cose accadono. Durante il tragitto, infatti, al personaggio può capitare (non raramente) di essere bombardato di domande. Oltre ad essere un luogo comune, questo del tassista chiacchierone, è anche un perfetto espediente a servizio del racconto. Quale modo migliore per presentare al pubblico un personaggio se non quello di porgli delle domande? Il tassista, in più di un film, assolve perfettamente questa funzione, rivelandosi un ottimo intervistatore. Prendiamo ad esempio Taxisti nella notte (Night on Earth, 1992) di Jim Jarmusch: i passeggeri si raccontano, ma anche i tassisti non si tirano indietro, e gli incontri sono sempre guidati da quella garbata ironia che costringe gli opposti a confrontarsi.
Il taxi, seppur non rievocato nel titolo, è l’éscamotage che realizza al meglio le intenzioni di Jarmusch: raccontare la specificità di cinque città diverse (il film presenta cinque episodi, ambientati a Los Angeles, New York, Parigi, Roma, Helsinki), la loro atmosfera, e contemporaneamente non perdere di vista i dettagli di ciascun personaggio.
Può accadere anche che quando due persone devono incontrarsi casualmente in un film magari li si fa litigare per il possesso di un taxi e, sempre casualmente, la lite potrebbe sfociare in amore. Più in generale, il taxi costringe due persone a incontrarsi, e diventa il luogo ideale per mettere a confronto due visioni antitetiche. Taxi blues (id., 1990) di Pavel Lounguine lavora proprio su questo meccanismo: il tassista Vanja e il sassofonista Liocha, dopo un primo momento di incomprensione, stringeranno una strana amicizia. Qui il tassista, data la sua professione, è destinato al movimento: l’abilità di Vanja nel muoversi fra le strade di Mosca è parallela alla capacità di esplorare il sottobosco della malavita della città per raggiungere Liocha, inseguito con ostinazione. Ma la mobilità di Vanja non si sofferma naturalmente al lato fisico, motorio: nel momento in cui torna da Liocha per riportargli il sassofono, Vanja inizia un percorso di discussione della propria identità. Il vero viaggio sarà lo smarrimento di una coscienza nei valori morali che fino a quel momento gli sono stati opposti: l’estro, l’arte, la musica.
A cura di Fabia Abati
approfondimenti ::