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cultura dell'immagine e della parola

Cattivi pensieri

Cattivi pensieri

Visioni, pensieri che divengono parole, che scrivono libri, e/o sceneggiature, che nel buio di una sala, da luce si trasformano e prendono forma di immagini, che sono e divengono a loro volta nuove visioni. È la storia di ogni film, ma è la storia di questo film.
Tratto dal libro L’impagliatore di Luca di Fulvio, Occhi di cristallo nasce da “certi pensieri che non devono essere pensati”, come ci confessa il suo regista Eros Puglielli, ma che in questo caso danno vita a un thriller, reso interessante dal fatto che è un genere ultimamente poco praticato e prodotto dalla cinematografia italiana.

Come la semiotica del cinema insegna, l’ispettore (Luigi Lo Cascio) è un ruolo ponte che connette il regista onnisciente rispetto allo spettatore che ancora non sa niente. Questa figura cerniera lo guida nella riflessione e lo agevola nella comprensione della storia attraverso un lento e macchinoso investigare alla ricerca degli indizi disseminati. Non è un caso, ma anzi ne è una conferma, il fatto che lo stesso ispettore sia aiutato dalle allucinazioni visive di un altro poliziotto, malato terminale di cancro al cervello, che sognando ad occhi aperti riporta a galla quei ricordi dell’infanzia, che permettono al protagonista di risolvere il caso, e allo spettatore di comprendere il perché di “questa realtà, solo in apparenza dominata dal non senso, in cui l’amore sembra impossibile”.
Nelle parole dell’ispettore Amaldi, come nel suo ruolo, è racchiusa quindi la stessa poetica del film. Pensieri che non dovrebbero essere pensati, sono pensieri che molto spesso vengono repressi in un inconscio, che diviene, quindi, sede di traumi, che generano ossessioni maniacali, che alimentano a loro volta insani progetti di una macabra liberazione, e una cruenta purificazione nel tentativo di espiare il male che tutti i personaggi, ognuno a suo modo, portano dentro.

Eros Puglielli, un giovane regista al suo secondo lungometraggio, si confronta con il genere tenendo ben presente la lezione del maestro del thriller-horror all’italiana Dario Argento. Sembra attingervi il tema del Trauma (id., Dario Argento, 1993) legato all’infanzia, quella delicata e fondamentale fase di crescita e sviluppo della personalità, in cui l’innocenza e la purezza di un essere umano è talmente sensibile da non riuscire a scindere il bene dal male, per divenire in età adulta il movente che guida l’assassino nei suoi rituali di morte.
Secondo uno schema di chiara matrice freudiana, il regista, utilizzando il linguaggio del sogno, ci guida in un metaforico viaggio psicanalitico-introspettivo nelle viscere di un male imperante e pervasivo, che impregna paesaggi spettrali caratterizzati da una natura decadente, che rende i cupi e lividi interni “luoghi interiori” specchio dell’animo dei protagonisti e delle vicende. Significativa, inoltre, la scelta di utilizzare resina, chiodi e corde, che non sono solo gli strumenti con cui il carnefice lega e imbalsama la sua bambola di pezzi umani (il riferimento rimanda ancora una volta all’infanzia), ma divengono anche i soli elementi nelle mani dell’ispettore, che lo legano all’assassino, come pure alle sue vittime lungo quella sottile linea rossa del male. Il serial killer traccia questa linea sui cadaveri, delineando così il proprio progetto, mentre l’ispettore la ripercorre come un tortuoso sentiero in discesa, per risalire al colpevole, al quale è accomunato dal disperato tentativo di rimettere ordine e dal bisogno di trovare un proprio destino che possa dare un senso agli orrori del mondo. Vive una sorta di transfert, che lo porta dapprima a tirar fuori una sua vecchia situazione traumatica, per poi riviverla in maniera ribaltata e quindi a liberarsene sul finale, riuscendo a salvare la donna che ama e venendo a sua volta da lei salvato.

Così le passate esperienze del regista (tra cui qualche spot pubblicitario e video musicali) tornano a salvarlo e donano al film un impatto fortemente visivo, che riesce a tenere in piedi una costruzione (la co-produzione) minata alla base da un soggetto non troppo originale. Il lieto fine di sicuro accontenta un po’ tutti, almeno sul versante della produzione. In tal senso ricorda i dettami del classicismo hollywoodiano, ai tempi di un producer system in cui i produttori, salvo poche eccezioni, rivendicavano gelosamente il diritto di decidere il final cut. La speranza è che sia un lieto auspicio per Puglielli che si salva con il beneficio del dubbio se le prossime visioni non riveleranno un abbaglio nel buio.

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