Il taxi come luogo cinematografico
Partiamo con una domanda, anzi due: quale altra forma d’arte avrebbe potuto incarnare meglio la figura del taxi se non il cinema? Quale altro linguaggio avrebbe potuto cogliere meglio l’essenza di questa tipica figura del nostro tempo?
Il taxi potrebbe infatti essere considerato come una vera e propria sineddoche metropolitana (il taxi è la metropoli), emblema e naturale filiazione della modernità, e con essa della metropoli, luogo per eccellenza di questa epoca. E il cinema, con il suo modo unico di raccontare il mondo attraverso le immagini in movimento, sembra proprio essere il medium in grado di restituirci nel modo migliore questo binomio taxi-metropoli.
Con un paragone potremmo infatti accostare la macchina da presa cinematografica, e ciò che essa coglie, al taxi, e quindi anche allo sguardo del tassista o di un passeggero. L’obiettivo svincola tra i volti e le cose di questo mondo, tentando di catturarne un’espressione, uno stato d’animo, un momento irripetibile, e il taxi, in fondo, compie un’azione dello stesso tipo attraverso continue carrellate tra i palazzi e i personaggi che popolano le strade da una visuale sempre mobile, esterna. Emblematico, da questo punto di vista, l’utilizzo della macchina da presa in Taxi driver, spesso piazzata a ridosso dell’auto gialla, che vaga nella notte newyorkese, o in Collateral, dove il pedinamento del taxi diviene anche un pretesto per mostrarci le luci e le highways di una città che non dorme mai: Los Angeles.
Il taxi però non vaga soltanto: si ferma e fissa un momento, un frammento irripetibile nella vita delle persone, quando salgono a bordo e il tassista le osserva attraverso lo specchietto retrovisore. Un brandello di vita, che spesso diviene rivelatore, forse proprio perché nel luogo dell’incomunicabilità e della non appartenenza per eccellenza, qual è la metropoli, l’incontro con un interlocutore anonimo come il tassista può trasformarsi nell’opportunità per il personaggio di confessarsi liberamente, in una sorta di lettino da psicanalista ambulante. Proprio come fa il pugile Butch (Bruce Willis) in Pulp Fiction, che rivela la sua impassibilità dopo aver provocato la morte del suo avversario alla tassista che gli consente una fuga dal luogo dell’incontro.
Andando oltre si potrebbe affermare che il taxi è, anche e soprattutto, emblema di una narrazione e di un cinema contemporaneo (e quindi metropolitano), nel quale più che compiere un lungo viaggio, e parallelamente un’evoluzione interiore, si preferisce, o si è costretti, a vagare (viene in mente il flâneur benjaminiano), talvolta nevroticamente, in uno stesso luogo. Ecco allora i cinque capitoli dedicati ad altrettante città (Los Angeles, New York, Parigi, Roma, Helsinki) in Taxisti di notte di Jarmush, autore in cui il tema del vagare sembra essere particolarmente presente (vedi Permanent Vacation, Dead Man) e Taxi Blues del russo Lungin, vincitore del premio alla regia a Cannes nel 1990, vivido ritratto di una Mosca sul finire della perestrojka.
Quindi il taxi, non solo come paradigma del (non) luogo moderno, ma anche come metafora della condizione dell’uomo moderno nell’ambiente che più gli si addice, ovvero la metropoli.
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