hideout

cultura dell'immagine e della parola

Intervista a Joel Bakan co-autore di The Corporation

Joel Bakan
Non è un caso se tra i momenti fondamentali del documentario che ha sancito la definitiva celebrità di Michael Moore, ovvero sia Bowling a Columbine, ci sia una trasferta del nostro in terra canadese.
Del resto, come ci confessa Joel Bakan in chiusura d’intervista con un sorriso appena accennato sulle labbra e con le dita a formare la cifra tre non alla maniera europea (pollice, indice, medio) bensì alla maniera tipica del suo paese (vale a dire indice, medio, anulare), «Tre sono le prerogative dei canadesi: l’hockey, lo sciroppo d’acero e criticare gli Stati Uniti».
Tradizioni a cui lo stesso Joel Bakan non sembra voler venire meno: oltre infatti a praticare lo sport nazionale (come dichiara nella intervista, partendo dal comportamento sul ghiaccio per creare una brillante metafora tesa a chiarire l’apparente cinismo di chi controlla e gestisce le corporations) e, ma è una nostra illazione, a gustarsi lo sciroppo d’acero sui pancakes a colazione, è l’autore del libro The Corporation (edizioni Fandango) in cui traccia una storia delle multinazionali e ne descrive l’aberrante potere che hanno nella società odierna. Un libro che è anche un film, nelle sale italiane da pochi giorni, diretto da Mark Achbar e Jennifer Abbot con la collaborazione dello stesso Bakan.
Un film denso ed esauriente di 145 minuti che del libro è una naturale prosecuzione.
Un’opera che oltre a rappresentare un’ analisi documentata (Bakan insegna Diritto alla British Columbia University) e appassionata, riunisce nelle oltre 40 interviste realizzate molti protagonisti del pensiero antiglobalizzazione americano (dal veterano Noam Chomsky a Jeremy Rifkin, fino all’imprescindibile Moore e alla giovane beniamina dei no global Naomi Klein, anche lei canadese).

Un documentario che conferma infine l’ottimo stato di salute di un genere fino a pochi anni fa considerato minore e comunque poco visibile, che oggi vive un’ inattesa e notevole fioritura in terra americana. Se Moore è oggi una star a livello dei grandi registi e attori hollywoodiani, molti giovani si fanno avanti (è il caso di Super size me, violento e satirico atto d’accusa conto Mc Donald’s) e grandi registi si dedicano a loro volta al genere (da Oliver Stone a Jonathan Demme).
Una vera e propria new wave, anche di passione civile e volontà di capire e (far) riflettere sui tempi (bui) di questo inizio millennio. Con la speranza di poter influenzare e cambiare le cose. Non limitandosi, quindi, a informare e descrivere aspetti complessi del nostro reale.
L’obiettivo vorrebbe anche essere altro (l’election day Usa è ormai questione di giorni…).

Jennifer Abbott
E’ stata complessa la trasposizione dal libro al film?

Non c’è stato un vero e proprio adattamento dalla pagina allo schermo data la natura insolita del progetto che è consistito in un lavoro parallelo. Io sono partito dall’idea di scrivere il libro e poi ho incontrato il regista che mi ha proposto di girare questo documentario, quando il libro non era ancora stato realizzato. Quindi le due lavorazioni sono procedute in parallelo ed è per questo che le interviste sono state utilizzate sia per il libro che per il documentario. Insomma, non è mai esistito un adattamento dal libro al film.

L’ascesa del documentario come forma cinematografica è dovuta ad un nuovo modo di reinterpretare nel suo complesso un genere, oppure è stato solo ed esclusivamente un merito di Michael Moore?

Penso che Michael Moore sia stato un personaggio importantissimo poiché è stato il primo a trovare il modo di fare film impegnati a livello sociale e politico sotto forma d’intrattenimento umoristico. E’ stato quindi assolutamente geniale sotto questo punto vista. Ma non dimentichiamo che c’è una lunga tradizione, specialmente teatrale, d’intrattenimento che ha come sfondo la critica politica e sociale, basti pensare all’Agip-Prot Theatre degli anni 20 o 30. Il cambiamento che ha permesso appunto la realizzazione di film come quelli di Michael Moore, di The Corporation o di Supersize Me [documentario vincitore dell’ultimo Sundance, ndr.], e che ha creato quindi un mercato per questo tipo di film, è stata la presa di coscienza da parte del pubblico che il mondo sta vivendo dei problemi molto gravi di cui tutti noi abbiamo prove quotidianamente e che, attraverso i mass media, non abbiamo la possibilità di venirne a conoscenza o di comprenderne le ragioni. E tutto ciò è anche dovuto al fatto che i mass media vivono sugli introiti pubblicitari e che questi introiti dipendono ovviamente dalle corporation. Il pubblico, a un certo punto, ha cercato di capire i motivi per cui il mondo non va, percependo che dietro a tutto ciò ci sono anche le corporation e si è quindi rivelato disposto ad ascoltare questi tipi di analisi che io o Michael Moore possiamo presentare. Magari non siamo per forza d’accordo, ma proponiamo comunque al pubblico un’argomentazione e una tesi sotto forma d’intrattenimento e consentiamo quindi alla gente di approfondire ed imparare qualcosa in più.
Mark Achbar
Si è parlato dell’esistenza di due tendenze, o scuole, all’interno del documentario americano. Una che fa riferimento a Michael Moore, in cui, oltre ad esserci una buona dose d’ironia, l’autore non si limita a rappresentare i fatti, ma li commenta e cerca di “convincere” lo spettatore della sua tesi. Un’altra invece, più rigorosa, all’interno della quale possiamo annoverare Errol Morris, in cui l’autore si limita a presentare i fatti, lasciando che lo spettatore arrivi alla fine a crearsi in modo autonomo un giudizio e un’idea su quello che gli è stato descritto. Lei è d’accordo con questa duplice visione? E se lo è, a quale tendenza pensa di essere più vicino? Oppure si sente parte di un movimento più generale che comprende nel suo complesso questa fioritura del documentario nel nord america?

Penso che ci sia un terzo approccio, ovvero il cinema veritè. Sicuramente The Corporation non è cinema veritè come non lo è Michael Moore, forse come tipo di approccio è più vicino a quello di Errol Morris e io ritengo che l’unicità di Michael Moore sia quella di aver creato un personaggio, con cui ci si può trovare più o meno d’accordo, ma è quello che è diventato. In The corporation non esiste un personaggio: quando si è trattato di decidere quale forma dare al film, inizialmente si era pensato che sarei stato io ad interpretare colui che guida lo spettatore attraverso il documentario, ma poi abbiamo deciso di lasciare che sarebbero state le argomentazioni a parlare da sé. E’ quindi sicuramente un documentario più simile a The Fog of War (Errol Morris, Usa, 2003 – vincitore premio Oscar come miglior documentario, ndr.) o a Manufacturing Consent: Noam Chonsky and the Media (Mark Achbar, Peter Wintonick, Canada, 2003, ndr.) anche se nel nostro caso non si parlava di un argomento specifico come è accaduto in questi ultimi, ma piuttosto si è cercato di esprimere un concetto, cosa molto difficile da realizzare tramite le immagini. Quindi per quanto sia diverso anche dalla scuola Errol Morris, rappresenta senz’altro un approccio al documentario più tradizionale.

• Vai alla pagina seguente

Link correlati:

• Speciale sui generi e modi del documentario
• Speciale su Michael Moore
• Recensione di Fahrenheit 9/11 di Micheal Moore
• Recensione di Bowling for Columbine di Micheal Moore
• Recensione di Roger and me di Micheal Moore

Non c'è ancora nessun commento.

Lascia un commento!

«

»